Parole, parole e parole
Il selfie? È un autoscatto. Meno inglese, più lingua
Troppo spesso usiamo parole inglesi quando avremmo a disposizione forme italiane perfettamente funzionali e anche più comprensibili
Molti lettori mi scrivono lamentando i troppi anglicismi presenti nella lingua italiana. Un po’ di anni fa Arrigo Castellani, uno dei massimi linguisti del Novecento, scrisse che l’italiano è affetto da morbus anglicus; quella formula talvolta fu oggetto di ironie ma è condivisibile nella sostanza, anche negli obiettivi che sottintende. L’adozione di parole straniere non è un male di per sé, al contrario; è una linfa per le lingue vive, che si arricchiscono reciprocamente con scambi continui, dando e ricevendo parole. Ma i fenomeni vanno attentamente osservati e, quando è il caso, orientati.
Negli ultimi decenni, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, l’anglo-americano si è diffuso a livello planetario, per ragioni socio-economiche e politiche evidenti. Anche in Italia e cresciuta l’attrattiva della lingua inglese e in particolare, specie dopo il boom economico degli anni cinquanta del secolo scorso, dell’American English. Centinaia di parole inglesi sono usate dagli italiani nelle comunicazioni abituali e fanno parte della nostra lingua. Alcuni prestiti sono assimilati e irriconoscibili nella loro provenienza. Risuonano «italianissime» parole come «bistecca» (adattamento ottocentesco dell’ingl. beef-steak ‘costola [steak] di bue [beef]’); «grattacielo» (dagli inizi del Novecento, calco semantico dall’ingl. sky[cielo]-scrapers [gratta]); e molte altre perfettamente amalgamate alle strutture della nostra lingua. Nessuno penserebbe di escluderle dalla lingua quotidiana, ed è giusto così, ci mancherebbe.
Le cose si complicano se consideriamo l’enorme diffusione dei prestiti integrali, parole della lingua inglese accettate senza adattamenti, che si riconoscono come forestierismi per la loro estraneità formale. Nomi di cibi e di bevande (brandy, curry, gin, whisky), parole del linguaggio politico (leader, meeting, premier), dell’attività sociale e mondana (dandy, fashion, festival), dell’economia (boom, business, check, copyright, export, fiscal drag, manager, marketing, stock, ticket, trademark), dello sport (derby, outsider, performance), del cinema e della televisione (cult, news, zapping), della comunicazione (call center, show, stand-by), della pubblicità (marketing, sponsor, spot, testimonial), del gergo giovanile (dark, punk, wow), della vita quotidiana e professionale (boss, boy-scout, flop, gangster, killer, mobbing, outing, shopping, recital, snob).
Troppo spesso usiamo parole inglesi quando avremmo a disposizione forme italiane perfettamente funzionali e anche più comprensibili. Abusiamo di parole come e-commerce (invece di «commercio elettronico»), food e drink (come se in italiano non esistessero «cibo»e «bevanda»), selfie (invece di «autoscatto»), perché sembrano più seducenti. Sono onnipresenti e insopportabili location (invece di «luogo», «sede») e mission (invece di «scopo», «programma»). È in crescita endorsement (riferito prevalentemente a un candidato politico) invece di «appoggio». In molti casi accattiamo espressioni inglesi inutili con atteggiamento snobistico, allo scopo di sembrare internazionali; e non ricorriamo a parole italiane, che presentano enormi vantaggi di chiarezza e di efficacia.
La sovrabbondante presenza di anglicismi è questione largamente dibattuta che coinvolge, oltre all’italiano, le lingue dell’intero pianeta, comprese quelle di grande storia e di ricca tradizione culturale. L’atteggiamento delle istituzioni e dei singoli di fronte alla preponderanza della lingua inglese varia fortemente, oscillando dall’accettazione scarsamente meditata alla chiusura quasi pregiudiziale altrettanto irriflessa. L’Accademia della Crusca condivide la richiesta, proveniente anche da non specialisti e per certi versi collettiva, di privilegiare, ove possibile, l’impiego di termini italiani nelle leggi, negli articoli di giornali, nella comunicazione della Pubblica Amministrazione e delle imprese, e anche nella comunicazione quotidiana, in particolare quando l’anglicismo sia scarsamente trasparente e appaia dettato da moda o addirittura da snobismo.
Dal 2015 è attivo presso l’Accademia il gruppo «Incipit», con lo scopo di monitorare i neologismi e forestierismi incipienti, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana e prima che prendano piede. «Incipit» esprime pareri sui forestierismi di nuovo arrivo nei campi della vita civile e sociale; respinge ogni autoritarismo linguistico e, attraverso la riflessione e lo sviluppo di una migliore coscienza linguistica, suggerisce alternative agli operatori della comunicazione e ai politici, con le relative ricadute sulla lingua d’uso comune. Tra le proposte di utilizzare espressioni in lingua italiana di facile comprensione, in luogo di concorrenti inglesi, si segnalano «centri di identificazione» (invece di hot spots), «collaborazione volontaria» (invece di voluntary disclosure), «lavoro agile» (invece di smart working), ecc. In nessun caso le forme italiane possono essere imposte, solo la condivisione collettiva ne può sancire l’affermazione. Ma, come succede in paesi europei come la Francia e la Spagna, sarebbe opportuno usare, nelle disposizioni, negli atti ufficiali e nella lingua di ogni giorno, le parole straniere solo a condizione che siano impiantate nell’uso e che non esista già una «onesta» parola o espressione italiana per designare la stessa cosa o esprimere la stessa idea.
La vita o la morte dell’italiano dipende solo da noi, dal nostro attaccamento per la nostra bellissima lingua e, mi sento di aggiungere, per la nostra cultura e per la nostra storia.