PAROLE PAROLE PAROLE

Diamoci del «tu»... (ma quando è il caso)

Rosario Coluccia

Nell’italiano contemporaneo si va estendendo l’uso del «tu» anche tra interlocutori che non si conoscono (o si conoscono poco) e quindi dovrebbero avere relazioni formali

Il tema cattura l’interesse dei lettori: nell’italiano contemporaneo si va estendendo l’uso del «tu» anche tra interlocutori che non si conoscono (o si conoscono poco) e quindi dovrebbero avere relazioni formali (commesso e cliente, venditore e acquirente, ecc.). È normale questo uso crescente del «tu»? Come va giudicato il fenomeno? Se un barista pluritatuato e con il codino tratta confidenzialmente con il «tu» uno sconosciuto anziano cliente viola contemporaneamente le regole del buon senso, della buona educazione e della lingua. A volte l’interlocutore a cui capita una simile avventura resta interdetto. Non tutti hanno la prontezza di Umberto Eco che, ad una sedicenne che lo trattava con il «tu», replicava: «Gentile signorina, come Ella mi dice...». Facendo entrare in crisi (senza alzare di un solo decibel la voce) la malcapitata ragazza, la quale probabilmente non conosceva altro pronome personale e avrà pensato che quel signore affabile e un po’ strano veniva da un mondo sconosciuto, forse da uno di quei vecchi film che qualche volta passano in televisione. A quel punto, in difficoltà, la sedicenne chiudeva il rapidissimo dialogo con un “Buona giornata”», rinunziando al «Ciao» usato abitualmente.

Il barista del nostro esempio e la ragazza che interagiva con Eco non intendono insultare, parlano normalmente così, trasferiscono nella loro conversazione i modelli televisivi (Uomini e donne, Amici) e i social a cui sono abituati. Senza rendersi conto che la lingua possiede anche altre forme, che bisogna saper variare a seconda dei momenti. Sintomo della perdita di memoria che caratterizza la società contemporanea.

Ovviamente non si tratta di riproporre le forme della comunicazione di un tempo. Nei secoli scorsi si usavano altri pronomi, che oggi nessuno più ricorda, «eglino» per il maschile e «elleno» per il femminile. A Carducci quei pronomi piacevano, ce lo testimonia quest’episodio. Carducci, appena nominato professore, entrato in una classe dell’istituto superiore femminile «Nencioni» di Firenze, alla prima lezione esordisce con un «Elleno adunque...» e viene sommerso dalle risate delle ragazze. Il professore non la prende bene: è giovane e ha di fronte un gruppo di vivaci ragazze della borghesia fiorentina. Ammonisce la più esuberante con tono burbero: «Lo so che ella avrebbe detto: “Sicché loro...” Ma è bene intendersi subito: qui si conviene aver rispetto alla grammatica, qui non si parla a modo delle ciane». In quella classe insomma non si parlava come le ciane «donne sguaiate, volgari, grossolane, pettegole»; il professore diceva «ella» ed «elleno» e pretendeva che le sue allieve facessero altrettanto.

Dare del «tu» a un adulto sconosciuto è irriguardoso, anche se non allude a una reale o supposta posizione di inferiorità dell’interlocutore. Il dilagare del «tu» finge una vicinanza che fa male a tutti, facendoci sembrare fintamente amici (l’amicizia è altra cosa).

Quel pronome non sempre è sintomo di egualitarismo o di democrazia, neanche in politica lo è. È attribuita a Palmiro Togliatti una battuta probabilmente non inventata, rispecchia lo stile dell’uomo. A un iscritto che parlava con aria supponente di cose che conosceva poco, il leader del Pci rispose: «Caro compagno, dammi pure del lei». In altre parole: essere compagni di partito non significa essere compagni di facilonerie.

Non era politica, ma di sicuro era assai ideologizzata, l’occasione in cui il 21 ottobre del 1975, a Lecce, nell’aula magna del liceo «Palmieri», in un dibattito pubblico Pier Paolo Pasolini cominciava così la risposta a un precedente intervento: «Ti posso dare del tu? sei così giovane». Si può leggere in «Volgar’eloquio», l’ultima conferenza di Pasolini, pochi giorni prima del suo assassinio su cui ancora oggi (a oltre quarant’anni) non conosciamo la verità, stampata poi nei Meridiani di Mondadori e più volte ripubblicata. Testamento inconsapevole, che in maniera affascinante comincia così: «Devo dirvi che io non so parlare, non saprei mai fare una conferenza o una lezione»; e prosegue «forse come spunto», con la lettura di una sua poesia il cui primo verso è «Il volgar’eloquio: amalo».

Gli aneddoti si moltiplicano. Un eccellente primario ospedaliero mi scrive: «Un mio Professore dosava l’uso del Voi, del Tu e del Lei con matematica precisione. Dava del Tu a noi giovani Laureati e ai suoi colleghi pari grado, il Lei era riservato al mondo accademico e limitato ai professori che riteneva più autorevoli. Il Voi denotava una contenuta stima nei confronti di soggetti giudicati non all’altezza, comunque, di ricevere il Lei. Passò dal Tu al Voi nei miei riguardi quando, conseguita la Libera Docenza, fui nominato Primario». E argutamente commenta: «Il giorno un cui divenni Primario non poteva più darmi del Tu, mi avrebbe posto implicitamente al suo stesso livello. Mai più!».

Concludiamo. Il «tu» indiscriminato è un abbassamento delle barriere falso e velleitario, nasconde la propensione a non rispettare le regole formali. E invece, ricorrendo alla variazione appropriata di «tu» ~ «lei» nelle diverse situazioni comunicative rispettiamo il linguaggio della cortesia, l’insieme di norme e convenzioni verbali adottate da una comunità per contenere la conflittualità e favorire l’armonia nell’interazione. Le variabili scelte linguistiche non sono casuali, vanno adeguate al contesto, allo stile, al registro, al canale e al mezzo di comunicazione, insomma alla situazione complessiva.

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