NOVELLE CONTRO LA PAURA
E nell’incubo pandemia c’era pure una dentiera
Il glicine profumato, i libri da leggere... e qualcosa da poter sgranocchiare
Era tornato da loro con la bocca piena. Al cigolio del cancello, rigido e pigro dopo due mesi di assenza, aveva risposto il loro mormorio. La peonia regale e maestosa metteva a nudo gli ultimi petali rosa ormai disfatti, esangui di colore e bellezza. La lavanda si era spampanata e fatta rinsecchire da una siccita che quest’anno era arrivata prima del tempo. Reggevano soltanto la chamaerops svettante scheletrica nel cielo e il ringosperum, i cui boccioli preannunciavano la estenuante zaffata di profumi. Il più generoso, il glicine, se ne stava da par suo in disparte aggrappato alle cancellate che cingevano la villa. Si tendeva malizioso verso le mimose che timide lasciavamo spuntare i primi fiori gialli. In un angolo, dove le foglie si erano raccolte, se ne stava anche lei, sua maestà la scopa.
Il camino, una volta aperta la casa, aveva brontolato anche lui, insieme agli spifferi d’aria. Era l’immagine della solitudine. Niente odori di legna bruciata, il calore della brace o lo scoppiettare degli arbusti, pronti a sacrificarsi per il dio del fuoco. E i libri lasciati in bella fila, ma troppo silenziosi e discreti in un ambiente agreste che non coltiva il loro trionfo. Erano rimasti lì come ospiti, un po’ timidi e impacciati. Pronti a declinare i loro mondi ma solo su richiesta.
La lettura in luoghi solitari è una benedizione se solo si riuscisse a rendere quegli oggetti prominenti rispetto allo sconsolato panorama museale che allineava attrezzi ormai in disuso e vecchi ferri, chiavi massicce e mortai e trappole e attrezzi… frammenti di vita, di scorribande, sprazzi di ricordi in un armamentario agricolo ormai in disuso. In un balzo aveva attraversato le stanze per raggiungere il giardino retrostante. Qui se ne stavano in bella mostra il sorbo e l’azzeruolo, che cacciavano le nuove foglie non intimoriti dall’incipiente caldo. Più distanti e riservati se ne stavano da un lato l’albicocco, il vero re di questo giardino, e dall’altro il melograno, troppo giovane per protestare ma vigoroso per affermare la sua presenza persino sui cespugli di corbezzoli, sullo sfondo.
La prima mossa fu quella di sparare acqua a tutta pompa investendo il ringosperum, da troppo tempo trascurato. In sua vicinanza erano venuti su, turgide come virgulti di adolescenti, le piante di fave che troneggiavano alte e cariche dei loro baccelli, pronti a farsi spogliare da mani rapaci. In un altro angolo, le dodici piante di carciofi si aprivano al cielo nonostante la poca acqua. Avari tuttavia di un solo fiore.
Tutto era rimasto come nelle ultime visite, quando il mormorio non era stato quello di assoluta desolazione, ma di dispiacere per la rarefazione degli incontri che avevo loro riservato. La lontananza ora si era protratta due mesi. O forse più.
E la scopa era rimasta lì, dove l’aveva lasciata la mattinata in cui tutto era accaduto.
Quel giorno stava accarezzando con l’acqua i carciofi, irrorando cipolle e aglio rosso quando inciampando sul destino se l’era trovata all’improvviso tra le gambe e, in un attimo, il tonfo era sopraggiunto con la caduta, muso a terra. Sul pavimento, duro di pietra. Trtracc… I denti anteriori avevano ceduto di botto, sei o sette. Senza sanguinamento ma con lo sberleffo della radice che si spezza e che ti lascia penzoloni quel che resta di un morso aggressivo.
«Dai, non prendertela», aveva esordito l’indomani l’amico odontoiatra. «Vedi, tic (e giù uno), troppo affollati e accavallati (tac e giù l’altro), prima o poi avresti dovuto perderli» (tictac e giù un terzo).
«E allora?»
«Ben venga l’incidente ora che sei ancora in forze, piuttosto che tra dieci anni»
«Ma fammi capire, che si fa?»
«Dobbiamo toglierli. Tutti»
«E come azzanno quel poco che mi rimane da azzannare? E come mangio?»
«Facciamo, sai, una bella dentiera. Anzi, ne facciamo due, una provvisoria…»
«Come provvisoria?»
«Sì, serve a capire quando tutto si sarà cicatrizzato e potremo allora pensare a un impianto
definitivo.»
«Uno, due denti…»
«No, mio caro, uno due tre quattro cinque poi quattro di ponte. Sì, aspetta, ma questi altri due non servono a niente, per cui alla fine, va, facciamo un ponte di dodici»
«Il nuovo ponte di Genova. Avrò smantellato mezza bocca…»
«Potrai tornare a sorridere»
«E per fare tutto questo?»
«Beh, insomma, cominciamo, i materiali costano… e poi vediamo man mano che andiamo avanti come possiamo procedere. Ci vediamo domani alle 9. Alle ore 14 uscirai di qua con i tuoi nuovi denti»
«Vuoi dire con la cosa, la… dentiera?»
«Eh già, se vuoi, chiamala così. Ebbene sì. Posticcia, fragile, ma sempre dentiera è. Ma vedrai vedrai poi quella definitiva…»
Le settimane successive, tutto aderì e combaciò nella bocca alla quasi perfezione. Specchi e specchietti per accettare artigli provvisori funzionanti e capaci di addentare. Assestati e sistemati, ben calzanti e affilati, modellati, plasmati… Prove generali per la dentiera definitiva…
Poi. Tutto precipitò nel lockdown e il mondo dovette chiudere. Anche l’odontoiatra appose i suoi lucchetti, augurando un arrivederci a presto, ma serrando fauci e palati di sdentati. Per fortuna, l’amico aveva pensato bene di saldarla, la dentiera, a quel che restava della bocca del suo paziente.
«In questo modo - aveva concluso - non te la ritroverai tra le mani».
La vita, nei mesi di clausura, era stata segnata dalla paura, dalla fragilità, dalla insicurezza, dalla provvisorietà. E i sintomi immanenti della fine non erano i bollettini lugubri di ogni sera, le teorie di camion che trasportavano bare, la liturgia dei numeri, i rituali spenti di ogni giorno.
No. Il segno diretto della disfatta era lei, la signora usurpatrice della bocca, quella dentiera che era rimasta incompiuta, a mezza bocca. Un ghigno e una beffa. Indispensabile e provvisoria per una vita sospesa…
Sbilenca da un lato, a coprire la corona superiore, o quasi, vivo corallo rispetto al resto che era spento. Un aggeggio che non scricchiolava, che non lanciava segnali di debolezza. Ogni qual volta addentava, formaggio, pane casereccio, bistecca che fosse, gli faceva sentire tutta la sua forza. Ma, anche, l’incertezza. E quali erano i sapori che riusciva più a captare? Quello dell’aroma del caffè? O un orzo al latte? E come masticare un bel pezzo di fondente? E gli altri piaceri?
Lei se ne stava discreta in bocca e lanciava segnali. Inequivocabili. Della caducità. Come a dire, attento, non incidere troppo, va leggero, non affondare perché io, da un momento all’altro, posso spezzarmi, frantumarmi in mille pezzi e magari mi ingoi pure.
«Trattami come un’amante forte e tenera, che va accarezzata, riconoscendogli la sua forza» sembrava sussurrare le notti di veglia. O agli improvviso sussulti, con il pensiero che correva terrorizzato alla bocca piena.
E così le colazioni i pranzi le cene e gli spuntini erano imbrigliati costantemente dalla benedizione per la vita che, nonostante il Covid-19, dispensava con il suo instancabile masticare. Su e giù, a destra e a sinistra, il rito di ringraziamento per lei, la dentiera, non perdeva mai la sua provvisorietà. Non incombevano sogni angosciosi, né futuri progetti, ma lei, la dentiera, apriva il varco a una vita vegetale. Chiusi gli occhi, cresceva a dismisura, invadeva la bocca, abbozzava ghigni ai fantasmi della notte. E minacciava.