di Giuseppe De Tomaso
I numeri in politica sono più diabolici di Satana. Vincere le elezioni con il 40 per cento dei voti ti fa sentire più irresistibile di Napoleone. Perdere il referendum con il 40 per cento dei voti ti fa sentire più resistibile di Sarkozy o più frastornato di un pugile al tappeto.
Non sappiamo cosa farà Matteo Renzi dopo aver annunciato le dimissioni da premier. Preparerà da segretario il congresso Pd? Lascerà la guida del partito? Sappiamo solo che la sua sfida costituzionale è stata un azzardo che avrebbe fatto meglio a non correre. Non già per ragioni, per così dire, di realismo politico, o di prudenza conservativa, che pure avrebbero meritato una certa attenzione. Ma per ragioni dettate dalla contingenza e dall’esperienza.
Se c’era un leader cui non conveniva affatto avventurarsi in una sfida più insidiosa di una scalata alpina con scarpe da tennis, questi era Matteo Renzi. Uno, perché il Rottamatore la sua riforma l’aveva già realizzata: il doppio incarico di presidente del Consiglio e segretario del partito di maggioranza. Due, perché il Fronte del No, in qualsiasi tipo di referendum parte sempre in vantaggio, dal momento che può arruolare tutti i contrari, pur pescando in partiti e settori che, il giorno dopo, non si ritroverebbero insieme neppure per un aperitivo al bar.
Aver codificato l’essenzialità del doppio incarico (il cosiddetto modello Westminster) aveva risolto al 90% la questione della governabilità, solitamente a rischio in un Paese dove le crisi politiche scoppiavano in seguito al fuoco amico del partito di maggioranza (contro l’inquilino di Palazzo Chigi). Renzi, con la riforma Boschi, aveva cercato di rafforzare il ruolo del capo di governo. Ma un premier che non fosse stato leader del partito non sarebbe durato a lungo, anche se fosse passata la revisione costituzionale ieri sottoposta a referendum.
Eppoi. Gli addetti ai lavori le definiscono le élite negative. Sono le forze politico-culturali, fra loro dissenzienti su tutto, ma accomunate dall’obiettivo di far fuori l’antagonista comune. Ecco. Le élite negative solitamente prevalgono. Non solo in Italia. Ma dappertutto. Il generale Charles De Gaulle (1890-1970) venne fatto fuori dai francesi in un referendum che toccava, anch’esso, i poteri del Senato. Lo stesso Alcide De Gasperi (1881-1954) lasciò il proscenio in seguito al mancato successo della cosiddetta legge truffa, che era una sorta di referendum, sia pure sotto le sembianze delle elezioni politiche. Morale: il Fronte del No, nelle verifiche referendarie, è sempre più vasto del Fronte del Sì, dato che può schierare più formazioni e più sensibilità ostili alla proposta in campo.
Ciò detto, la parola adesso passa al presidente della Repubblica e ai mercati che, a differenza degli elettori, votano ogni giorno. Al Capo dello Stato toccherà guidare la fase di transizione dal renzismo al post-renzismo. Al presidente della Bce toccherà tamponare, fino a quando gli sarà possibile, e nei limiti consentitigli, la possibile contrarietà degli investitori internazionali, apertamente schieratisi per vittoria del Sì. Non sarà facile.
Le riforme non hanno vita facile, in Italia, come dimostra la storia patria. La Costituzione, poi, è più sacra della Madonna. La speranza è che il No a una riforma che doveva essere studiata meglio e gestita ancora meglio, non fermi definitivamente il cammino per un’Italia più semplice e meno complicata, più protesa alla cultura del risultato che alla cultura della procedura.
Sarà il grillismo la stagione successiva al renzismo? È assai probabile, anche se nel frattempo occorrerà affrontare la fase di transizione preelettorale.
Quasi certamente toccherà a un tecnico-politico o a un politico-tecnico succedere a Renzi al timone del governo. Mandato chiaro: nuova legge elettorale e via al voto. Il nome più ricorrente è quello di Pier Carlo Padoan, attuale ministro dell’Economia. Il suo compito principale sarà quello di rassicurare l’Europa e gli investitori che considerano lo Stivale l’anello debole dell’Unione, potenzialmente a rischio fuoriuscita dal club dell’eurozona. Il rialzo dello spread nei giorni scorsi non faceva ben sperare.
Molto probabilmente Berlino e Francoforte solleciteranno a Roma altre misure improntate a rigore, rigore che, nella traduzione italica, non corrisponde a un taglio di spese, bensì a un ulteriore rialzo della tassazione. Il che contribuirà ad aggravare la depressione economica, non a curarla.
Lasciamo stare la riforma Renzi che era piuttosto lacunosa e che, come detto sopra, era meglio non presentare in quei termini. Ma guai se la prospettiva di un mix tra populismo e immobilismo dovesse diventare realtà nei prossimi mesi. Ci ritroveremmo in un Paese iper-conservatore, sempre più ostile al cambiamento, e, soprattutto, tagliato definitivamente fuori dalla competiziomne globale.
Paese davvero ingovernabile il nostro. A parole tutti vogliono le riforme, a patto, però, che non si facciano. Il Gattopardo suggeriva di cambiare tutto per non cambiare nulla. I nipotini del Gattopardo non vogliono rischiare: non vogliono cambiare nulla per poter rimanere sempre fermi, immobili.
Renzi è stato più che spericolato nell’ultimo anno. Se proprio ci teneva all’approvazione della sua riforma, avrebbe dovuto mettere il silenziatore a se stesso e riaprire la discussione sul referendum solo pochi giorni prima della data stabilita. Invece, ha preferito lanciare la più lunga campagna elettorale della storia nazionale, agevolando la controffensiva dei suoi oppositori. Risultato: allo schieramento del no alla sua riforma si è aggiunto lo schieramento del no al suo governo, visto che il referendum si è via via trasformato in un ballottaggio sul capo del governo.
E adesso? Ripetiamo. Auguriamoci che lo stop a questa riforma non significhi lo stop a tutte le riforme. Ma non ci facciamo illusioni. Il primo aspirante riformatore si sentirà obiettare che gli italiani hanno già detto no alle novità. E, quasi certamente, il malcapitato si dovrà ritirare in buon ordine. Chi oserà, ad esempio, riproporre l’abolizione del Senato? Solo un kamikaze. La reazione immediata sarà netta: gli italiani hanno salvato il bicameralismo e bocciato il monocameralismo. Che volete ancora?