L'intervista

Ostaggi Selvaggi, ecco Tarshito e l'arte sospesa fra terra e cielo

Alberto Selvaggi

Dall’azienda di famiglia al guru Osho e al mondo cercando la via

BARI - Sicuramente sei tra i pochi prodotti pugliesi artistici da esportazione, Tarshito, nato a Corato e cresciuto altrove, foss’anche soltanto per il tuo rapporto costante con l’alterità del mondo.
«Ho viaggiato tanto, viaggio ancora, sulla via della ricerca cercando una sintesi del tutto, essendo ogni essere ed ogni elemento una cosa sola. Guardare la terra e poi fissare il cielo stellato sopra di noi, circolare come il cranio dell’uomo. Ricercare nella materia l’essenza della trascendenza che sono io, che sei tu. Questo è un po’ il senso del binomio arte e meditazione, che s’incontrano perché sono reciprocamente infuse. E questo è un concetto che, se ti piace, puoi trasporre anche in miei lavori recenti, nella cartografia creativa che tendo a estendere in una geografia unica delle nazioni».

Questo è un concetto profondamente orientale e specificamente nelle derivate buddiste. Pure nel nome lo porti inscritto: non Nicola Strippoli, classe ’52, coratino, bensì Tarshito, che in sanscrito intende sete di conoscenza interiore.
«Ciò che dici è vero in decenni di ricerca spirituale e artistica. Ma contestualizzare Tarshito soltanto con l’Oriente vuol dire delineare confini che in realtà non esistono. Tutto è incominciato in India. Ma per estendersi nell’altrove. Ho sposato quelle filosofie come concetti. Ma i miei vasi, per esempio, non sono assolutamente orientali nell’aspetto. Se ci sono i Budda, i tappeti da meditazione, un mandala, ci sono poi tanti frutti di espressione mediterranea, del Brasile, Corea, paesi dei quali mi sono innamorato per sintonia».

Da cui la grande mostra diffusa che hai proposto ultimamente, «Il Sentiero del Viandante Innamorato».
«Anche, certo, e che adesso, covid permettendo, stiamo cercando di accorpare in una esposizione unica in un luogo storico, quale un castello».

Tuttavia interpretarti come un derivato del flusso inaugurato nel secondo Ottocento dal Museo Guimet e dai Moreau o Giacometti che s’incuriosirono, viene d’istinto. Almeno a un non esperto come me.
«Perché ne colgo l’idea. Ma il nesso termina qui. Detto questo però, indubitabilmente, Nicola oggi non sarebbe Tarshito senza l’India e il maestro spirituale che ha cambiato la sua esistenza. Nasco come architetto e designer. Mio padre, nel Mobilificio Strippoli, mi aveva assegnato un mestiere come architetto della florida impresa di famiglia. Mi laureai a Firenze in architettura, tornai a Corato ma, sai, non mi sentivo a mio agio nel commercio. Per cui lasciai. I miei mi sostennero quando fondai e guidai, tra anni Settanta e Ottanta, per sette anni il mio studio Speciale, a Bari, corso Vittorio Emanuele. Un progetto di ricerca che voleva superare la divisione tra arte, architettura e design, negli anni del boom italiano, con il Salone del mobile faro mondiale milanese. Cercavo qualcosa che non si fermasse alla materia, per cui…».

Partenza per la Terra Promessa nella quale tutto è spirito, dagli intervalli microtonali della musica alla scultura al respiro, anzi soprattutto il respiro.
«Precisamente: partii. Verso quella regione della mente che attirava tanti cercatori, i delusi dal sogno infranto della rivoluzione. Fu Re Nudo, leggendario periodico della controcultura, a condurmi lì da Osho. In quel periodo noi viaggiavamo attraverso la terra. Da Bari a Brindisi, dalla Grecia alla Turchia. Era il tempo dei luoghi di accoglienza per i viaggiatori. A Kabul un italiano di ritorno dall’India mi regalò un numero speciale di Re Nudo dedicato a Pune, sede dell’ashram del mio Maestro, e a Delhi. Non sapevo niente di meditazione, compassione, cose del genere. Così nel ’79 raggiunsi la sede centrale di Bhagwan Shree Rajneesh, poi noto come Osho, che era al culmine della fama».

E anche delle accuse che gli piovvero sulla testa.
«So che è stato un personaggio discusso ma in me portò la luce. Vissi nell’ashram per quattro mesi e mezzo. Un’esperienza unica, meravigliosa, una rinascita, un fiume di amore e di pace nel quale mi immersi. Tanto da chiedere il discepolato. Osho mi diede il nome di Swami Deva Tarshito. Lui che coniugava la meditazione, la spiritualità con la psicologia occidentale, in una sintesi efficacissima».

Quindi ti sei trovato sulla stessa rotta dei grandi accademici americani della psicologia, destinati a scoprire che le stesse teorie dell’inconscio non risalgono alle favole di Sigmund Freud ma ai testi buddisti.
«Eravamo tutti spinti da una sete di conoscenza e di conciliazione fra realtà lontane. Dopo aver conosciuto la madre delle arti, l’architettura, si aprirono così per me anche le porte del mistero. E resto su questa strada. Non sai che felicità, che piacere, che appagamento mi proviene nel fondere la materialità della vita con l’arte dei materiali, guardare l’orizzonte mondano e subito dopo il verticale supremo. Rendere uno i due grandi temi. Da allora, anche con le mie mostre, con collaborazioni con artisti del luogo, l’India è stata per me meta di viaggi frequenti. E sempre attraverso l’India, io cattolico, sono arrivato, dopo la condivisione con i monaci buddisti, a ritrovare i frati cattolici della mia religione di famiglia, figure quali quella di don Tonino Bello. O i nativi brasiliani con i quali ho realizzato opere d’arte e ricerca. L’Amazzonia condivide con l’India la ritualità e il simbolismo. Sono sorelle».

Mi domando se, senza i soldi di famiglia, avresti potuto fare l’indagatore di te stesso in giro per il pianeta.
«Ti rispondo: sì. Viaggiavamo anche con due soldi in tasca, l’avventura era la regola. Inoltre ho insegnato in Accademia a Bari, ho la pensione adesso, ho venduto opere in tutta Europa e fuori, diventando in India l’artista prediletto di famiglie dalle ricchezze difficilmente immaginabili in Occidente».

E come no, Tarshito, anni fa abbiamo visto un matrimonio indiano a Savelletri di Fasano, Masseria San Domenico, da fantascienza. «Le Mille e una notte» da allora ci sembrano niente.
«Ah già, è vero».

Anche tu, con il Villaggio Speciale Tarshito, hai dato qualcosa alla nostra terra. Mi ha colpito. Lo trovo geniale e insieme produttivo. Sorge nel quartiere Mungivacca di Bari, periferia estrema. Oasi di 1500 metri quadrati che diffonde la sua bianca poesia.
«Sono contento che lo apprezzi perché ci sono legatissimo, anche se vivo in centro, non lì. È una realtà destinata a crescere anche grazie all’entusiasmo dei miei collaboratori, o di artisti come il drammaturgo, attore e regista Lino De Venuto, la mezzosoprano Tiziana Portoghese e il fisarmonicista classico Francesco Palazzo, preziosissimi. Con i corsi sto trasferendo nel Villaggio Speciale Tarshito anche il mio ruolo di docente. Questo mondo dove un tempo si lavorava la sansa è composto da nove architetture che ho ristrutturato alla mia maniera: grandi gallerie espositive, laboratori d’arte, una struttura per la meditazione, la casa in cui risiede un mio collaboratore stabilmente, le cucine con la cuoca hare krishna, e così via».

E in cui si riversano invitati scelti per happening spirituali e di sincretismo artistico, danza, musica, mantra, performance, cori, cibo vegetale offerto secondo i sacri crismi. Perché sei un artista ma, per cultura familiare, conosci anche l’impresa. E perché, omone pacioso e rassicurante, sei un ottimo pr.
«Tu parli di pr, ma io di pubbliche relazioni non m’intendo. Conosco l’accoglienza. Conosco l’amore fra le genti. Amo profondamente dare ricevendo. Ai baresi, che mi hanno sempre riservato la loro gentilezza, come a qualsiasi altro abitante dell’universo che preferirei magari un po’ diverso ma che ho imparato ad amare ugualmente com’è. Il più bel regalo che ognuno può fare a se stesso».

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