Ostaggi Selvaggi
Sud, ecco l’impero della pasta: parola di Francesco Divella
Francesco Divella: io, Vincenzo e la sfida al Nord. Verso i 500 milioni annui senza aiuti
Dottor Francesco Divella, mi trovo in difficoltà, cioè non so come chiamarla: senatore Divella, onorevole, ad, presidente…
«No, e lasciamo perdere i titoli politici, ai quali guardo come cose del passato: sono amministratore delegato come mio cugino Vincenzo, assieme al quale da quarant’anni guido l’industria di famiglia».
Cioè 1200 tonnellate di grano duro al giorno, 400 di tenero per 1000 tonnellate di pasta secca e 35 di fresca, 90 di biscotti, olio, conserve. Un colosso che alle porte di Rutigliano, provincia di Bari, macina oltre 300 milioni di euro di fatturato mirando ai 500.
«Pensi alla Cina, al versante del mondo che ospita un miliardo e 700 milioni di persone. Basterebbe un consumo di un chilogrammo di pasta all’anno pro capite per dare mercato a dieci pastifici. Per ora il prodotto viene acquistato in zone quali Hong Kong, non al centro».
Nell’attesa avete colonizzato 125 paesi, dal Canada alla Nuova Zelanda, nei quali esportate il marchio del trullo.
«Deve considerare anche gli italiani all’estero, importatori forti come Francia e Germania. Lei magari qua mangia sushi e sashimi, ma da dieci anni lì il consumo della pasta cresce in eguale maniera. Per non parlare dell’Albania. Nel ’98 portai in quel paese affamato la Fiera del Levante che presiedevo. E da allora il consumo di pasta, fino allora inesistente, ha contribuito anche in senso economico a migliorare la loro vita. Ancora oggi ne sono orgoglioso e felice. Mi piaceva molto fare il presidente della Campionaria. Meno il senatore e il deputato, non ho mai accettato l’ostruzionismo in politica».
Lei a centrodestra e suo cugino Vincenzo nel centrosinistra. Per strategia aziendale.
«Non è così. Io ho frequentato le elementari a Rutigliano e mi sono trasferito a Bari dalla prima media, dove dopo il ‘68 ho conseguito la laurea in Giurisprudenza. Studiavo al Convitto Nazionale “Domenico Cirillo”, quartiere San Pasquale, nell’omonima via, istituto orientato a destra quanto l’Orazio Flacco a sinistra».
Sììì!, grandeee!, pure io sono un «cirillino»!
«Ah, quindi pure lei andava al Cirillo. Ma era convittore come me, cioè dormiva in collegio, oppure esterno?».
Esterno.
«Allora sarebbe stato oggetto della nostra invidia: noi convittori, lontani dalle famiglie, sognavamo le uscite serali che raccontavano i giovani liberi. Però quella disciplina mi ha formato. Ancora oggi mi sveglio nell’orario in cui a scuola suonava la campanella, 6,05. Alle 7.30 sono in fabbrica fino alle 13.30. Poi due ore di meridionale pennichella e rientro dalle 17 alle 21 circa».
E lei con Vincenzo da un chicco di grano ha creato un impero.
«Ci siamo formati con l’esperienza diretta ma anche attraverso i buoni consigli ascoltati in famiglia. Mio padre Domenico, quando gestiva il molino, mi inculcò un principio: non fare mai debiti, tieni in tasca soltanto il 20 per cento dei ricavi senza dividerli, tanto restano lì, mica li perdi. Zero banche, investi. Così promuovemmo una campagna pubblicitaria con i Meteo Rai e Mediaset».
La Puglia era già California del Sud ma in un perimetro di indefinitezza. I miei colleghi del Nord citavano un solo nome: «Pasta Divella».
«Erano anni di espansione, seguita alle svolte storiche che hanno cambiato i consumi radicalmente. S’è incominciato negli anni Venti, ma fino ai Sessanta la pasta veniva fatta in casa e si vendeva farina. Oggi utilizziamo metodi di lavorazione avveniristici. Tanti anni fa, per esempio, l’essicazione avveniva manualmente in cameroni giganteschi. Adesso personale iper-specializzato segue ogni passaggio via computer, pronto a intervenire per riequilibrare umidità e temperatura lungo la linea. La tecnologia si affina ed è sempre più difficile reperire competenze».
Avete 350 dipendenti diretti e 150 indiretti. E nessuno mai ha fatto una sola ora di cassa integrazione: zero.
«Mai, precisamente. E motivo di soddisfazione per me è anche il fatto che abitino tutti al massimo a 20 chilometri di distanza dalla Divella. Però non mi piace la parola che ha usato: dipendenti. Io non li ho mai chiamati così. Sono collaboratori, per me. Collaboratori diretti che mi sostengono con il loro affetto, con le loro capacità, legati anche da un rapporto di confidenza. Altri 150 collaboratori sono gestiti da aziende dei rami trasporti e pulizie. E a questi si aggiungono un centinaio di nostri agenti sparsi da Milano alla Sicilia. Significa portare decine di milioni all’anno alle famiglie pugliesi: su 300 milioni c’è un’incidenza di costi di produzione del 18 per cento».
Quest’anno festeggiate i 130 anni di attività: soltanto tre in meno della «Gazzetta del Mezzogiorno».
«Ha ragione, praticamente siamo nati insieme».
Anno Domini 1890, per una pasta dal sapor di leggenda.
«Allora l’industria pastaia, naturalmente, non esisteva. C’era il molino».
Ma già esisteva un Francesco Divella, il capostipite, padre di suo padre. E ci sarà un Francesco Divella anche in futuro, l’eccellente figlio di Vincenzo, vicepresidente di Confindustria Bari e Bat, attualmente.
«Francesco Divella in effetti è il nostro nome eterno. Il figlio di Enzo è un bravo ragazzo ed è in gamba. Rientra nella quarta generazione che si va definendo dopo la mia. Ci sono anche Domenico, mio figlio che si occupa del biscottificio, i figli di Pasquale, Fabio e Francesco, poi Vincenzo, Agostino che segue i mulini con Francesco jr e che, mi raccomando, non sono io: a volte mi intervistano e mi ritrovo sui giornali ringiovanito».
Beh, questa è bella, ma con tutti ‘sti Francesco lo scambio di persona incombe sul giornalista.
«Eh, magari fossi ancora giovane così. Ricordo quando per me ed Enzo cambiò la vita. Dopo anni di esperienza lavorativa nei reparti incominciata nel 1975, venne deciso di passare il testimone dell’azienda. Allora ci chiudemmo in una stanza, ci guardammo negli occhi e dicemmo: che facciamo noi due adesso? E rispondemmo: ognuno svolgerà mansioni diverse e precise, e da oggi vale fino alla fine. Così è stato. Ci consultiamo ogni 10-15 giorni, senza mai un attrito. Della macchina conoscevamo ogni pezzo prima di metterci alla guida. Ma per crescere ancora occorre anche il contesto».
Cioè?
«Le regioni del Nord più avanzate si reggono su quattro componenti: agricoltura, industria, turismo e cultura. Sono stanco di sentir parlare soltanto di Puglia e turismo. Basta. Dal Tacco d’Italia io spendo 800 euro in più a camion per esportare prodotti in Europa. L’alta velocità ferroviaria manca e potrebbe sopperire. E con i porti è peggio. Per consegnare alla nostra Divella Australia, dacché la compagnia Evergreen s’è trasferita da Taranto al Pireo, impieghiamo 40 giorni invece che 25. E il nostro 35-40 per cento di produzione è destinato all’export».
Intanto con i biscotti avete ugualmente spezzato le reni ai nordisti.
«Ha centrato il bersaglio: da Roma in giù non sono più loro i padroni e anche nel Settentrione trovano una dura concorrenza. Presto rilanceremo con nuove proposte a base di pasta di nocciola e cioccolato».
Allora m’è venuta un’idea: io ho un gattuccio. E osservo l’espansione impressionante del mercato pet. Perché non lanciate i «Croccantini Divella» usando a ‘sto punto come testimonial il mio piccolo Dorian Gray?
«Perché l’idea che lei mi propone l’ho avuta e valutata anch’io. Ho una volpina, Nina, e ne ha una pure mia moglie, l’ha chiamata Lolita. Nel Conad che frequento vedo gli scaffali del cibo per animali estendersi sempre più. Tuttavia, Selvaggi, il progetto, per quanto valido, non è proponibile per la Divella. I nostri consumatori che penserebbero? Fanno la pasta per gli uomini e poi pensano agli animali? Rigatoni, pelati e cibo per gatti e cani bio? Perciò, ogni volta, mi fermo. Quindi: niente croccantini».