«Ostaggi Selvaggi»

Michele Mirabella: «Non i talent, la cultura è l’Elisir»

ALBERTO SELVAGGI

Il noto personaggio televisivo pugliese rivela: «Io, Arbore e Banfi, tre sodali per una trasmissione in sospeso»

Ogni volta che guardo Michele Mirabella sul piccolo schermo penso: e che c’entra? Mi stupisce cioè la presenza di un’anomalia, di un uomo di cultura offerto come personaggio televisivo, e non viceversa.

«Capisco cosa intendi, ma io un’anomalia non mi sento proprio. E direi che non lo sono, al pari di personaggi quali Renzo Arbore, Lino Banfi, o altri ancora maturati in un contesto di formazione più o meno condiviso. La nostra forza è la diversità stessa. Non vedo perché se uno ha una laurea, conosce magari il latino, lo ama e lo legge, pur non ricordando un granché il greco, non possa dare il meglio in una gag, per esempio, secondo una formula di disimpegno formativo. Anzi, credo che proprio la cultura e il background esprimano nello spettacolo ciò che va espresso: siano risata, il travestimento, l’imitazione, o qualsivoglia trovata funambolica di scena».

Sì, ma il tuo mondo, il vostro non è il presente. 

«E va bene, vogliamo dire che non sono diventato famoso facendo, non so, una gara di rutti in un talent show come si usa adesso?».

Bravo, e anche senza saper fare manco questo, come Chiara Ferragni che sul nulla per vie digitali è diventata una potenza finanziaria e d’influenza sulle coscienze.

«So che il mondo va così, però mi compiaccio di essere frutto di un’eredità storicamente diversa. Poi mi spiegherai che durata di successo possono sostenere i soggetti ai quali fai riferimento».

Anche infinita, attraverso lo spazio del vacuo che per chiunque s’è aperto. E diventando straricchi, dacché all’artista si è sostituito il giovane manager.

«Ho avuto la fortuna di vivere il prosieguo della stagione che chiamo “gioventù della televisione”. La migliore del mondo, quella della Rai che, a partire dal primo canale, ha fissato la sua impronta nella società moderna. In quelle stanze c’erano personalità quali Umberto Eco, che chiamavo per nome, Sergio Zavoli, Piero Angela, quindi Renato Parascandolo e così via. Seguendo il filo di una intellettualità curiosa, nel ’90 abbiamo fatto avanspettacolo con Il caso Sanremo».

Tu, Renzo Arbore, Lino Banfi, la banda pugliese, più Massimo Catalano.

«Non è soltanto la pugliesità a unirci. A Lino mi lega una amicizia profonda, che va oltre l’appartenenza a una regione. Nutro affetto per una persona buona, stima per il grande attore capace di scatenare forti palpitazioni. E con Renzo aggiungerei anche l’origine piuttosto simile, nonostante il gap d’età: quando facevo il ginnasio lui era all’università. Manteniamo una frequentazione continua, ci sentiamo, ci vediamo, ci confrontiamo…».

E avete progettato una nuova trasmissione in trio. Arbore me l’ha detto.

«E io te lo confermo. Come credo saprai, era già tutto avviato, apparecchiato al sapore di Puglia: prima di improvvisare noi proviamo tanto. Ci ha messo il bastone tra le ruote il Covid-19. Per ora. Vedremo poi. Comunque nella mia carriera non ho mai conosciuto un artista più generoso, intelligente, di animo gentile di Renzo. Ora so che mi dirai che sto intonando il peana del foggiano che suona il clarinetto».

Sì, esatto.

«E te lo faccio, per l’appunto, anzi continuo, perché è esattamente ciò che penso».


D’altronde percepire spontaneità in quella specie di mondo vostro non dev’essere frequente. Chissà quant’acqua hai visto scorrere dal tubo catodico.

«Vinsi il concorso in Rai nel ’73, sotto l’Austerity. Con Arbore avevamo un’amica in comune, oltre ad Arnaldo Santoro, l’avvocato con cui suonava a Foggia nella leggendaria Taverna del Gufo e che fu poi co-autore anche di Indietro tutta. Frequentavo il capoluogo dauno per miei spettacoli teatrali e, folgorato da Alto gradimento, conobbi lui e il suo gruppo, da Mario Marenco a Giorgio Bracardi e Gianni Boncompagni. A Roma siamo stati vicini di casa per un anno e mezzo sulla Cassia nuova: aveva allestito un teatrino in salotto per fare musica».

Dalla Carrà a Magalli hai firmato di tutto, hai recitato in «Ricomincio da tre» con Troisi. Ma senza citare film, programmi, regie teatrali e d’opera, ché l’elenco è lungo, ciò che ti ha impresso sulla fronte del grande pubblico è la costanza quotidiana in favore della salute: «Elisir» come fu?

«Non mi arrogo meriti altrui: Lucia Restivo e Patrizia Belli mi tennero sotto osservazione per sei mesi, nel ’96, Raitre di Angelo Guglielmi, e scusate se è poco. In tarda primavera, mentre ero a Capri per 15 giorni di riposo, il vicedirettore mi chiamò proponendomi una trasmissione domenicale in serata, medicina e salute. Ma io sono ipocondriaco e risposi: no. Lui: bene, allora il contratto non te lo rinnovo. Io: ho cambiato idea, sono con voi. Devo insomma a due donne straordinarie se da allora sono in onda con Elisir».

Con una postura pettoruta che concilia il militare con il professore. Papà Pasquale, ufficiale dei carristi, Croce d’argento sul campo, Croce di ferro germanica, Cavaliere al merito della Repubblica, mamma Margherita Garofalo, docente di lettere, donna di polso. L’ereditarietà è quasi tutto.

«Eh bello mio, se è per questo anche nella genia paterna militaresca gli insegnanti abbondavano. Mia madre parlava in francese al mattino, i fumetti erano banditi, avevamo non una biblioteca, ma più d’una. E papà quando voleva che leggessi un certo libro lo chiudeva a chiave affinché io di quella chiave facessi una copia. Con dieci lire andavamo al cinema per vedere Totò e Fellini, alla Casa del soldato, sul retro della Caserma Picca, quando lui ebbe incarico di responsabilità nel distretto di Bari. Vidi Norma al Piccinni a cinque anni con i miei genitori e restai folgorato dal sipario cremisi, dal palco, le luci che mi parevano la Lanterna magica, gioco dei tempi nostri che simulava con una candela e figurine incollate in una scatola col buco effetti teatrali, da cinematografo».

E di qua spuntò Michele Mirabella uomo di teatro prima d’ogni altra cosa, perno autoriale e registico del Cut, Centro universitario teatrale, caso unico e ineguagliato nella storia culturale del capoluogo.

«Da piccolo a casa truccavo mio fratello, martirizzavo una sorella vestendola da cinese per imbastire spettacolini. Ma senza il Cut, senza Egidio Pani che lo fondò, anche quest’intervista non avrebbe avuto luogo. Portammo il teatro barese in tutta Europa. E il mio impegno, dopo la stagione che va dal ’64 al ’69, proseguì con la drammaturgia popolare, pensa a Jarche Vasce, 1974, giunto a 5.000 repliche, che segnò tra l’altro l’esordio della sedicenne Carmela Vincenti».

Ou, non lo sapevo, sono ciuccio forte.

«Eh. Maurizio Micheli si unì a me, a Pasquale Bellini, a Vito Attolini e agli altri due anni dopo. E nonostante l’amicizia fraterna, immutata, le passeggiate notturne verso l’edicola di piazza Roma (ora Aldo Moro ndr), per acquistare Paese Sera, la dedizione ai ruoli mi permettevano di imporre la mia idea registica alle sue facoltà straordinarie di attore».

Mi ha raccontato tutto di voi. Io ricordo ancora Micheli, fra l’altro, in quel capolavoro poetico di Bruno Bozzetto, «Allegro non troppo».

«Ho letto l’intervista per la tua rubrica. Seguo, so. Considero La Gazzetta del Mezzogiorno un bene pubblico da tutelare, ancor più dei quotidiani comuni, per la sua storia più che secolare, il ruolo fondamentale nello sviluppo del Mezzogiorno, e per la sua naturale prossimità a ciò che racconta. Difatti sulle cronache locali, in particolare, indugio. Sono nato a Bitonto, lo sai no?».

Sì, 1943, 7 luglio.

«Tra l’altro mi viene un sospetto mo: in seconda media veniva in classe con me un certo Francesco Paolo Selvaggi, bravissimo a scuola, urologo parecchio conosciuto...».

Non siamo parenti, no. Ha soltanto un figlio avvocato Alberto Selvaggi mio omonimo che condivide a Bari con me frequenti e incredibili scambi di persona. Dovresti scriverci una pièce su.

«Vedi che c’era comunque qualcosa? Io pure per la città natia mantengo un rapporto d’amore. Frequento le cerimonie religiose dei Misteri e dei Santi Medici. Mi sono speso per la riapertura del teatro Traetta, l’ho diretto per otto anni, dopo la ricostruzione che dobbiamo a un uomo straordinario come l’ex sindaco Nicola Pice, filologo classico. E soggiorno spesso nella mia casa sul mare di Santo Spirito, propaggine per ogni bitontino doc. Quando avevo tre anni ci trasferimmo a Bari, a undici stavamo a Roma e tornammo in Puglia quando ne avevo 15. Ho frequentato il classico Carmine Sylos bitontino, poi l’Orazio Flacco, fiore all’occhiello del capoluogo pugliese. Nel 1970 lasciai la Puglia per l’Urbe in cui vivo. Bari mi ha fatto nascere, Roma mi ha fatto crescere. E il resto della storia grosso modo la conosci: mè, statt’ bbùn’ uagliò».

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