l'anniversario
E quel Pavese «segreto» è bello come un intrigo (anche tra sponde politiche)
Intervista alla prof. Francesca Belviso, originaria di Bari, ricercatrice presso l’università Sorbonne Nouvelle-Paris 3
Professoressa Francesca Belviso - ricercatrice presso l’università Sorbonne Nouvelle-Paris 3 e curatrice del «Taccuino segreto» (Aragno) di Cesare Pavese, gigante di cui oggi ricorre il settantesimo anniversario della morte - perché la pubblicazione di questi scritti fa discutere ancora l’establishment culturale italiano?
«Pavese è stato considerato da una abbondante letteratura critica, ma anche da una vulgata durata decenni, come uno dei protagonisti dell’antifascismo culturale italiano ed etichettato - forse sbrigativamente - come uno degli intellettuali appartenenti all’ala comunista e postmarxista della casa editrice Einaudi. Questo Taccuino segreto, ricco di pensieri scopertamente reazionari e filofascisti, offre un’immagine meno monolitica e senz’altro più problematica e complessa dello scrittore torinese. Ma ciò che potrebbe ancora suscitare un vivo dibattito riguarda anche la vicenda del lungo occultamento di questo documento».
La storia del «Taccuino segreto» è quasi un intrigo…
«Come racconta Lorenzo Mondo nella testimonianza che accompagna l’edizione del Taccuino, il block notes lo ritrovò tra le carte pavesiane nel 1962 e subito fu consegnato a Italo Calvino il quale decise di occultarlo per non infangare la memoria dello scrittore. L’originale è irreperibile, ma permangono le fotocopie del manoscritto realizzate all’epoca da Mondo e che abbiamo infine pubblicato in veste anastatica. Dopo la morte di Calvino, Mondo decise di rivelare il contenuto del documento sulle pagine culturali de “La Stampa” nell’agosto del 1990 sollevando un putiferio mediatico. L’edizione di questo testo permette oggi di fugare ogni dubbio sulla sua autenticità e il mio saggio induce a contestualizzare questa scrittura diaristica inserendola a pieno titolo nella biografia intellettuale di Pavese».
Tessera del Fascio nel 1932, poi il confino nel '35, nel '36 la domanda di grazia, nel 1945 l’iscrizione al Pci: come s’ inquadra il «Taccuino» nell’itinerario intellettuale dello scrittore piemontese?
«Pavese è stato essenzialmente un fascista e un antifascista “malgré lui”. La sua militanza politica non fu mai il frutto di una vera passione, ma piuttosto il risultato di scelte subite ed essenzialmente strumentali. Mi piace definirlo piuttosto un “antifascista estetico” e un “apolitico etico”. Quelle pagine del Taccuino rivelano peraltro l’influenza profonda di alcune letture e traduzioni che Pavese stava realizzando proprio in quel torno di anni, in particolare letture di filosofi bollati come irrazionalisti ispiratori delle più dissennnate correnti culturali fasciste e nazionalsocialiste. Mi riferisco in particolare al Nietzsche della pseudo Volontà di potenza che Pavese tradusse proprio nel ’43-’44».
Nel suo saggio fa riferimento alla fascinazione che subirono i migliori intellettuali europei per la «Germania segreta». Ne fu sedotto anche Pavese?
«Il primo a parlarne fu il grande germanista Furio Jesi per sottolineare l’ascendente di quella corrente artistico-culturale dell’inizio del Novecento nella quale vanno annoverati scrittori come Georg Simmel, Stefan George, Károly Kerényi o ancora Thomas Mann. A partire dalla prima metà degli anni Trenta Pavese si interessò agli studi di etnologi inglesi e francesi come Frazer e Lévi-Brhul per poi allargare l’orizzonte all’area tedesca e in particolare a studiosi come Kerényi, Frobenius, Propp, Philippson. Questi autori troveranno ampio spazio nella collana Viola di studi religiosi, etnologici e psicologici fondata all’Einaudi in collaborazione con il pugliese Ernesto De Martino nell’immediato dopoguerra. Alle spalle di Kerényi o Mann, ai quali Pavese si rivolgeva come ispiratori e tutori della sua poetica, risiedeva proprio l’estetica della “Germania segreta” e le creazioni degli artisti dell’espressionismo eredi proprio di quei poeti romantici ai quali Pavese aveva consacrato le sue prime traduzioni giovanili. Da alcuni anni ormai ho potuto levare un velo sul Pavese germanofilo e germanista autodidatta che realizza le prime traduzioni negli anni ’24-27 per poi approfondire il tedesco all’ombra di auctores come Nietzsche a partire dagli anni ’40, sicché si dovrebbe ormai parlare di un Pavese germanista, accanto al più noto Pavese americanista».
Pavese in queste pagine di pensieri sulfurei sferza i tic degli antifascisti, elogia la Rsi, i leader del tempo di Italia e Germania, invoca uno «Stato» protagonista. Questo filone reazionario lascia tracce nella sua successiva produzione artistica?
«Molte riflessioni del Taccuino costituirebbero lacerti di pensieri inseriti nel Mestiere di vivere, perciò è senz’altro possibile considerare il block notes come un brogliaccio i cui frammenti convoglieranno in parte nel Diario. Ma soprattutto la scrittura del Taccuino è senz’altro servita a Pavese per comporre pagine indimenticabili de La casa in collina, già definito da Mondo come il romanzo del rimorso e dell’espiazione dell’esperienza bellica».
Pavese figlio (anche) della dialettica presente nella Torino degli anni Trenta tra regime e dissidenza antifascista?
«Una delle maggiori problematiche esistenziali di Pavese è stata proprio quella di nascere ed evolvere nella Torino degli anni Trenta, un vero bastione dell’antifascismo italiano e della cultura engagé e di essere cresciuto accanto a martiri ed eroi della cultura militante italiana come Gramsci e Ginzburg, senza possedere né la stessa tempra, né le stesse convinzioni politiche».
I sodali di Pavese, a partire dalla Pivano, cercano di circoscrivere la «tentazione fascista» del Taccuino. Pavese è stato il «Céline italiano» o ha racchiuso nelle sue contraddizioni le tante inquietudini intellettuali che segnarono i giovani della prima metà del Novecento?
«Fu Carlo Dionisotti a definire Pavese come il nostro “minuscolo Céline”. Le biografie intellettuali dei due scrittori, però, sono profondamente diverse, senza contare che nel pensiero non privo di contraddizioni di Pavese non vi fu mai la benché minima venatura antisemita. Ma la sua parabola esistenziale, sino a quell’ultimo atto estremo che amo considerare come uno stoico gesto di nichilismo attivo, resta senz’altro un esempio di erranza e di ricerca che ha prefigurato l’essenza stessa delle generazioni successive. Per questo Pavese resta ancora oggi una delle figure più libere e complesse della cultura italiana del Novecento».