L'INTERVISTA
Bari, il musicista-rider: «Vogliamo solo ciò che ci spetta»
L’esperienza di un 29enne barese, tra maleducazione e pericoli. «I colleghi stranieri vittime di razzismo»
La sue passioni sono la chitarra e il cicloturismo. E in un giorno, in sella alla sua bicicletta con pedalata assistita, è stato capace di percorrere anche cento chilometri per consegnare gli ordini da una parte all’altra della città.
Antonio Colella, Totillo per gli amici, ha 29 anni. Musicista e studente in una accademia musicale barese, abita al San Paolo, da dove da nove mesi a questa parte iniziano le spedizioni quotidiane per conto delle aziende per cui lavora. Un ragazzo solare, aperto, che ha viaggiato e che ha scelto di fare il rider. Antonio non si piange addosso ma è cosciente della condizione di totale precariato in cui lavora.
Il progetto di Zona Franka e Cgil può davvero aiutarvi?
«Una bella iniziativa. Un luogo di incontro, dove ricevere anche assistenza fiscale, legale e per i mezzi. Ci voleva. Servirà a fare conoscere finalmente a tutti i fattorini come dovrebbero andare le cose, a limitare lo strapotere che hanno queste multinazionali».
E i suoi colleghi cosa pensano?
«C’è scetticismo, colpa della disinformazione e dei pregiudizi sul sindacato. Molti si illudono di essere veri free lance e sono disposti a rinunciare a diritti sacrosanti per un lavoratore. Ma si tratta solo di una finta indipendenza, perché non siamo di certo liberi professionisti. Al posto di restare nel più totale precariato, è opportuna la battaglia perché il nostro diventi un rapporto di lavoro stabile e subordinato. Non trasportiamo solo cibo, avremmo diritto al riconoscimento dello status di corrieri. Purtroppo c’è qualcuno che preferisce restare nella condizione in cui siamo».
A chi fa comodo?
«Penso ai cosiddetti “veterani”, che qui a Bari hanno iniziato a lavorare nel settore due anni fa, quando sono arrivate le prime aziende. Persone di 50-60 anni, con 6-7mila ordini in carriera. In città sono una decina: hanno aperto la partita Iva e con questo lavoro mantengono la famiglia. Non vogliono la subordinazione perché temono un calo dei guadagni o, comunque, preferiscono questo status di apparente libertà».
Quanto guadagna un rider?
«Dipende dalle aziende, ma possiamo parlare di una media di 10 euro all’ora. La mia azienda offre una tariffa base di 1,75 euro accettando l’ordine, più 40 centesimi a chilometro percorso. E qui esistono disparità insopportabili, perché c’è chi riconosce i chilometri dal punto in cui il rider si trova fino a che non raggiunge il locale di ritiro dell’ordine e poi il cliente e altri che invece riconoscono solo i chilometri dal punto di ritiro al cliente. Per non parlare delle tariffe più basse da noi al Sud Italia, come se la fatica fosse diversa».
Insomma, dieci «veterani» se la cavano, e gli altri 380 rider baresi?
«Noi italiani siamo ormai la minoranza. La gran parte sono ragazzi stranieri, nigeriani e pachistani soprattutto, che purtroppo sono costretti a subire anche episodi di razzismo. Tra di noi invece siamo tutti solidali, italiani o no, siamo nella stessa barca».
Le esperienze positive e negative in questi nove mesi?
«L’apprezzamento dei pizzaioli per il mio modo di trasportare gli ordini, non nella borsa termica sulle spalle ma sul cestello della bicicletta. Lo devo alla mia esperienza di cicloturista, così le pizze o il resto vengono preservate fino alla consegna. Episodi spiacevoli? La mancanza di rispetto per quello che facciamo. È capitato pure che una ragazza abbia cambiato atteggiamento dopo che le ho detto che lavoro facevo. Poi la maleducazione e lo scarso senso civico degli automobilisti baresi, non c’è rispetto per chi va in bici, nemmeno sulle piste ciclabili. Per fortuna io me la sono sempre cavata, ma non passa giorno che un rider non rischi la vita o non capiti un incidente».
Durante il lockdown eravate tra gli eroi...
«Mah, abbiamo fatto solo il nostro lavoro. Certo, siamo stati utili alla gente chiusa in casa. Spero almeno che sulla spinta dell’emergenza Covid venga accelerato il cammino per trovare le forme giuste di tutela del nostro lavoro, che vengano riconosciuti i diritti che ci spettano».