Diario di classe
Che sia un 2 Giugno di tutti, pure di chi è nel limbo
Ricordiamo gli «esclusi» dalla cittadinanza e il senso di sospensione dei giovani che sentono il disagio dell’allontanamento all’estero
Oggi è una giornata di quelle che non si dimenticano: 2 giugno festa della Repubblica. È il giorno dell’appartenenza, delle bandierine tricolore sventolate da bambini festanti, è il giorno delle celebrazioni ufficiali e il giorno perfetto per ridestare valori patriottici troppo spesso espressi solo durante i campionati di calcio.
È il giorno del sentimento collettivo. Chi sono e da dove vengo oggi mi appaiono domande dalla facile risposta.
Ma è un compleanno amaro per chi non sarà invitato, per coloro che si sentiranno messi all’angolo, esclusi.
Nella scuola in cui insegno, tanti gli studenti arrivati peregrinando per mare, molti di questi sono arrivati nelle nostre città sin da piccoli, hanno il volto di Tala, di Abdul, di Omar, di Rashid, di Halim, parlano la nostra stessa lingua, abitano le nostre classi, frequentano i nostri figli e le nostre case, perpetuano i nostri stessi rituali, crescono nelle nostre comunità, ma restano diversi, perché sono privi della cittadinanza italiana.
È uno strano Paese quello che permette che ciò accada per motivi ideologici, per inadempienza, per mancanza di visione, per incapacità.
Un Paese che ha permesso che si creasse una sorta di schizofrenia identitaria per migliaia di minori di seconda generazione costretti a sentirsi ancora immigrati, anziché semplicemente figli.
Questo strano Paese, il nostro, avrebbe dovuto come Padre e Madre, appellativi nobilissimi che hanno a che fare con la cura e con la presa in carico, occuparsi di ognuno di loro al fine di trovare soluzioni capaci di annullare le differenze, come accade in molti altri Paesi europei.
Questi figli vivono la frustrazione di non sentirsi mai nel posto giusto: perché non può essere casa il paese di origine in cui non hai vissuto affatto o non abbastanza, né può essere casa il luogo in cui abiti se non ti viene riconosciuto.
Sono tante le testimonianze, le interviste, le lettere dei ragazzi che raccontano il disagio di questa condizione che non ha soltanto a che fare con l’appartenenza o con il senso di affiliazione, ma con la fatica quotidiana di vivere sospesi in un limbo in cui sai che non tutto ti sarà concesso: partecipare ai progetti Erasmus, ai concorsi pubblici, esercitare il diritto di voto, vivere nello stesso modo in cui vivono i tuoi coetanei e smettere di sentirsi diverso.
È emblematica la storia di Fatima, insignita come «esempio civile» lo scorso marzo per volere del Presidente Mattarella.
A Fatima è stata riconosciuta la volontà caparbia di spendersi per gli altri, di restituire ciò che le è stato dato, di mettersi a disposizione della collettività, gestendo il doposcuola Unicef a Torino per i figli dei migranti, accogliendo le donne senza casa, costruendo canali di accoglienza.
Molte le foto che ritraggono l’emozione e l’orgoglio di quel momento, in cui però fa capolino l’amarezza di chi è consapevole che nonostante il merito, dovrà continuare il suo iter burocratico per dimostrare di essere parte e di essere degna, dello Stato che l’ha cresciuta, ma mai completamente accolta. E allora anche il traguardo più prestigioso conserva il sapore agrodolce di ciò che ancora non si è compiuto.
Manca un atto di banale civiltà.
A chi ha ancora dubbi in proposito sul cosa fare e come farlo, consiglierei di ricordare la scelta dei romani, quando per volere dell’Imperatore Caracalla nel 212 d.C. fu estesa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, processo che ebbe il suo compimento nella Constitutio Antoniniana. I Romani ebbero da sempre una concezione non etnica, ma politica della cittadinanza, interpretando tale concessione non come uno strumento di esclusione, di differenziazione tra noi e loro, ma come mezzo di inclusione e di gestione del potere nello stato romano.
Dunque, dovremmo ripercorrere strade già note, la storia ce lo ha insegnato, se solo avessimo avuto la capacità di ricordarcelo.
Noi a scuola stiamo già costruendo un futuro diverso, lo facciamo un passo alla volta con fatica ma anche con ottimismo e determinazione convinti che noi tutti, nessuno escluso, siamo dalla stessa parte.
Viva l’Italia!