Lessico meridionale

Quell’arte vitale di saper mangiare

Michele Mirabella

La necessità di soddisfare bisogni non deve essere l’alibi per rinunciare alla qualità e salubrità dei cibi

Mi piace ritornare su Samuel Johnson, scrittore, anzi, meglio, scrittore inglese, che fu considerato tra gli animatori della cultura del suo tempo e meritò l’appellativo di «Dottor» Johnson. Dalla sua opera traggo il tesoro precettistico: «Colui che non si preoccupa di quello che mangia non saprà preoccuparsi di nient’altro». Saggio. Dobbiamo preoccuparci di quello che mandiamo giù e oculatamente esaminare, scegliere sia che abbia ragione Socrate che sosteneva di mangiare per vivere, sia che vogliamo dargli torto vivendo per mangiare. Prima di arrivare al pane casereccio, al croissant o alla pizza andrebbe studiato il seme, la terra, l’aria, l’acqua, il concime. La fatica del contadino.

La necessità di soddisfare bisogni non deve essere l’alibi per rinunciare alla qualità e salubrità dei cibi. È vero che, dal tempo del miracolo dei pani e dei pesci, non s’è dato altro esempio altrettanto convincente di sviluppo compatibile, come lo chiamano i sociologi, ma è anche vero che se le prelibatezze sfornate da Dio panettiere e pescivendolo sono inarrivabili, come del resto lo era stata la qualità del vino di Cana, possiamo e dobbiamo tentare di salvaguardare la genuinità e bontà degli alimenti per difendere la salute degli uomini a maggior lode del Padre. Padre al quale, peraltro, chiediamo il pane quotidiano riservandoci, evidentemente, di pensare noi al companatico.

Come avrebbe detto il dottor Johnson moralista, serve una sana condotta di vita e di studi accompagnata da irreprensibile vigilanza sulla naturale qualità e difesa integerrima del diritto per tutti ad apparecchiare il desco tutti i giorni.

E, aggiungo io perché il dottor Johnson non aveva motivo di preoccuparsene, occorre avere cura assoluta che scienza e diritti della natura vadano d’accordo. È, questo sì, è il problema morale del millennio appena cominciato.

In una società che scatena bufere eclatanti e transitorie con la periodicità sospetta concessa dai media, sulla qualità della vita, sulle diete ossessive e stagionali, sui rischi connessi ai nuovi stili di comportamento e alla moderna alimentazione, viene da domandarsi se non sia meglio vigilare giorno per giorno creando una seria coscienza della salute piuttosto che scatenarsi in ondivaghe e passeggere campagne di attivazione del dissenso. Con lo stesso rilievo si proclamano campagne contro mucche pazze e diete del tennista in feste massmediologiche condite di isterismi occasionali o modaioli.

Saper mangiare non è solo un’arte è una necessità vitale. Per tutti: uomini e bestie. Soprattutto se gli uomini poi mangiano le bestie. A lasciarle fare, loro, le bestie, mangerebbero con intelligenza spontaneamente, naturalmente. Gli uomini no, devono decidere di farlo. Brillat-Savarin scrittore francese quasi contemporaneo del dottor Johnson (1755-1826) e autore del famoso Phisiologiedugôut scrisse «L’uomo mangia, solo l’uomo intelligente sa mangiare».

E, infatti, il Latino della Scuola medica salernitana aveva già ammonito «Prima digestiofit in ore»: «La prima digestione avviene in bocca»). Orribile. Ho provato altre traduzioni senza successo. Non c’è che dire, ce lo teniamo in latino con quel fit in ore svelto ed elegante.

Resta la saggezza pudica del motto salernitano che eredita prudenze più antiche che abitavano in Italia. Prudenze che suggerivano la calma e tessevano l’elogio della lentezza quando si tratta di mangiare. Calma e lentezza che erano consigliate con fermezza e calore anche dalle zie sapienti. «Quando si mangia si combatte con la morte» minacciava mia zia Rosina. Non pensava, allora, in quegli anni beati di naturalezze alimentari, alle schifezze che mangiamo oggi, ma m’imponeva il silenzio durante la masticazione considerandola preziosa e delicata fase della digestione. Appunto. Lei, zia Rosina, ne faceva, però, anche un fatto di buona educazione, giustamente.

I frati nel refettorio mangiano, mangiano lentamente e tacciono. Si tratta di severità cenobitica, ma anche di gusto sottile per la piccola gioia dello sfamarsi senza ingordigia che è una mite forma di preghiera. E il Creatore ha piacere di questo. Non si dice del cibo buono e genuino che è una «Grazia di Dio», quella grazia di Dio che bisogna rispettare e custodire senza abusi e sprechi? C’è ancora qualcuno che usa questa locuzione rispettosa del cibo, visto non come cuccagna gratuita, ma come frutto di fatica e pazienza? Per non parlare della sublime arte della cucina. Quelli dell’ingurgitamento fine a sé stesso la conoscono?

Non credo, giacché il mangiare velocemente è considerato comodo e utile anche se non sappiamo, se non di rado, che cosa, veramente stiamo mangiando. Grazia di Dio? E se lo è, perché la mangiamo in piedi, ingurgitando enormi bocconi mandati giù con i calci della nota bevanda gasata americana?

Si chiama «Fast food». Traduzione: cibo svelto. Che orrore. È una contraddizione in termini, un affronto alla salute: è un modo per saltare a piè pari la prima, preziosa digestione. Sottoscriverebbe anche il dottor Johnson.

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