Lessico meridionale

La provincia è il sale della cultura italiana

Michele Mirabella

Ricordo un personaggio di Eduardo passato alla celebrità per una battuta pronunciata in «Natale in casa Cupiello»: «A me non mi piace il presepio». Più che pronunciata, era biascicata in un borborigmo di livore screanzato: quello dello scansafatiche accidioso

Come ogni anno, nella domenica più vicina al giorno di Santa Lucia, scrivo del presepio. Capita, dunque, che mi ripeta: trattandosi del presepio è quasi obbligatorio.

Ricordo un personaggio di Eduardo passato alla celebrità per una battuta pronunciata in «Natale in casa Cupiello»: «A me non mi piace il presepio». Più che pronunciata, era biascicata in un borborigmo di livore screanzato: quello dello scansafatiche accidioso. E lo sprezzo del Presepio riassumeva iattanza e pigrizia mentale. Sotto l’egida di queste si arruolano molti stupidi sfiancati da un insopportabile snobismo attivato dal complesso dei provinciali che non capiscono che la Provincia è il sale della cultura italiana. «A me non mi piace il presepio!» avvertono i caporali di tutte le estrazioni sociali quando pretendono di infliggerci il loro ego frustrato. Ma, ci sono caporali e ci sono uomini: a me i caporali, quelli in uniforme che servono il Paese, piacciono. Non mi piacciono i caporali capobastone, gli infimi che, in forza dell’impiego, pretendono di comandare, imporre, maltrattare, castigare e criticare. Assenti, dunque, davanti alla grotta.

Quest’anno l’assetto strutturale è pianeggiante e solo qua e là collinoso, un poco brullo con qualche zona sabbiosa e solo un laghetto con inevitabile fontana con vasca circondata da palme noncuranti della presenza, poco più in là, di abeti dolomitici che non ci azzeccano niente ma fanno tanta scena. E ho messo molte arance che danno colore gioioso. Non manca niente in un tripudio sincretistico di figure d’ogni provenienza: tutta la gamma dei pastori, da quello tradizionale con pecore e abbacchio regolamentare sulle spalle al porcaro con maialini e scrofa premurosa, alla donna con formaggi e cacicavalli allo zampognaro che si mescola allo scrivano ottocentesco, al venditore di libri usati, al fiaccheraio e al cantiniere. Da un pezzo ho esiliato il cacciatore dietro un albero e gli ho messo un fiore nel fucile. Ora non spara più agli uccellini e io gliene ho messi tre sulle spalle. La lavandaia esibisce vicino alla grotta una generosa scollatura che mostra grazie di Dio e che si prodiga lavando i panni ruvidi della Luce del mondo. Sono sicuro che Questa non rinnegherà la pia governante. Nel presepio sono sgraditi i bacchettoni.

A me il presepio piace. Chi vede il mio teatro se ne accorge. Lo inventò San Francesco come una pièce teatrale, figuriamoci. Ma amo anche il presepio regolamentare, s’intende, con tutti i personaggi e i requisiti che la tradizione impone: Sacra Famiglia, bue, asinello, angelo annunciatore di pace, lavandaia, pastore semplice, pastorella con caciotte, guardiano di porci, pescatore, suonatori di cornamuse, vagabondo addormentato.

Ho nostalgia di tutto questo e pratico con testardaggine la minuscola edilizia del presepio anche a casa mia, la casa di un adulto che non confonde più gli occhi sacrificati di Santa Lucia con due frutti esotici. Ogni anno lo aggiorno con nuovi santi pastori vagabondi, con pecorelle devote, con magi in buona fede, ma, anche, con ospiti pellegrini dell’attualità e della cronaca. Devo ammettere che m’era più facile prima e, infatti, ancora annovero davanti alla capanna una «band» di suonatori di Jazz, un duo di scrivani somiglianti a Totò e Peppino e uno zampognaro tale e quale al mio dolce amico Massimo Troisi. A proposito, un signore napoletano mi ha raccontato che i presepiali artisti sembra non abbiano intenzione di vestire il presidente Trump da pastore: conservano ancora Barack Obama, esterrefatto, amato angelo negro. Oggi, stante la penuria di nuovi candidati, candidati nel senso del candore dell’innocenza, in grado di assumere un ruolo in pianta stabile tra le pecorelle, scelgo come protagonista il pastore dei pastori: «u’ sckandat». Letteralmente, nel dialetto nostro, sta per «lo spaventato». È, costui, un singolare visitatore che staziona davanti alla grotta fatidica con un’espressione sgomenta, orante, con gli occhi sbarrati, le braccia spalancate e la bocca semichiusa in un fonema intelligibile, solo dai puri di cuore che sembra esprimere l’atterrita gioia della salvazione annunciata. Non porta niente, né caciotte, né agnellini, né vino, né uova, né, tanto meno stoffe preziose o spezie: «u sckandat» è povero: porta solo il suo stupore di fede e la sua letizia di speranza. Nel Presepe di Bari, ma, non solo, di ogni città e paese, oggi, «u’sckandat» è il cittadino onesto, generoso, prodigo con gli ultimi e che offra, pagando le tasse, le risorse utili a far presepi dovunque. Presepi fatti di altruismo, civismo, giustizia, rispetto per l’ambiente, la cultura, la scuola, la ricerca. Dovrebbe promuoverli lo Stato questi Presepi. In attesa, diamoci da fare noi col candore dello «sckandat» che mi commuove. Chi vorrà negarsi al pellegrinaggio alla grotta, sarà libero di farlo e nessun pastore gli toglierà il saluto, ma se ne assuma la responsabilità. Chi vorrà ubbidire all’«Adoremus» potrà farlo con gioia. L’Angelo della pace fa l’annuncio per tutti.

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