La rubricha
Diario di classe: così Olga mi ha insegnato il valore del silenzio
Inizia oggi la collaborazione con la «Gazzetta» di Mirella Carella, che curerà la rubrica «Diario di classe», piccole e grandi storie quotidiane che nascono tra i banchi e nei cuori dei giovani.
Inizia oggi la collaborazione con la «Gazzetta» di Mirella Carella, che curerà la rubrica «Diario di classe», piccole e grandi storie quotidiane che nascono tra i banchi e nei cuori dei giovani. Mirella Carella, barese, ha lavorato nel mondo dell’arte partecipando a mostre in Italia e all’estero, alcune sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. Dal 2015 è docente di ruolo in Disegno e Storia dell’Arte.
Oggi vi voglio raccontare la storia di Olga: ha 15 anni, la stessa età di mio figlio, solo che lei viene da un contesto che noi insegnanti definiamo «deprivato», è un modo garbato per dire che proviene da un ambiente con pochi mezzi, non solo nelle tasche, e allude a chi ha visto solo da lontano il mondo dell’istruzione, della cultura e delle possibilità.
La sua famiglia se la contende, è figlia di genitori separati che hanno trovato in lei il pretesto per farsi la guerra. La mamma e il papà di Olga comunicano con la scuola usando linguaggi diversi, che spesso vengono decodificati dagli assistenti sociali, con i quali noi insegnanti in questi anni, abbiamo costruito relazioni stabili.
Olga è timida, parla poco e parla piano, qualcuno le ha inculcato il timore nell’uso della parola, come se le sue parole non fossero adeguate. Io l’ho conosciuta lo scorso anno, ma il suo sguardo magnetico mi ha sempre fatto immaginare che celato nella sua testa e intrappolate nelle sue labbra, appena appena dischiuse, vi fossero fiumi di parole pronte per essere ascoltate.
È passato un anno e adesso io e Olga ci conosciamo, abbiamo capito che possiamo fidarci e ci intendiamo con lo sguardo.
Io parlo, parlo, è la cifra degli insegnanti, quella di utilizzare sempre troppe parole, più di quante possano servire. Olga mi ha insegnato il valore del silenzio.
Olga è seduta al primo banco, ancora trema quando vede scorrere il dito sull’elenco, perché teme di essere interrogata e di sentirsi di nuovo inadeguata, ma io ho smesso di farlo.
Abbiamo inventato un gioco solo nostro, non è stato necessario spiegarci né regole, né utilizzare nuovi alfabeti, io interrogo i compagni, lei mi fissa e con la voce lieve, lieve, risponde a tutto. Non c’è domanda alla quale non sappia dare risposta.
Se volesse potrebbe parlare alla classe, e non solo alla sua, dell’Apoxyomenos di Lisippo, di come si sia evoluto il linguaggio della scultura greca dall’età arcaica sino all’ellenismo. Potrebbe disquisire sulla differenza tra il chiasmo e il movimento antitetico, ma non lo fa.
Me lo sussurra piano e le sue parole sono ancora lievi... ma io la ascolto. Ho imparato ad ascoltare, mentre ci guardiamo occhi negli occhi.
Olga a scuola ha imparato a sorridere, sorride con me e sorride con i suoi compagni. Sorride, nella sua aula chiassosa, così lontana dai rumori assordanti alla quale ha assistito da quando era bambina.
Olga è orgogliosa, non chiede niente, né racconta di sé, perché è il suo modo di allontanarsi da ciò che la fa sentire diversa dagli altri.
La scuola è per Olga un’opportunità, una chance, e di certo è diventato un porto franco, alla quale approdare durante le tempeste. E le tempeste dei quindicenni, sono assai burrascose, i più fortunati hanno le mani di mamma e papà pronte a proteggerli, qualcun altro confida nelle nostre.
Se dovessi spiegare cosa è la scuola, a chi non la conosce, la spiegherei così: la scuola è casa, per noi e per i ragazzi che incontriamo, anche quelli che incrociamo per poco.
La scuola è casa, o almeno dovrebbe esserlo, perché è il luogo dell’ascolto, delle risate, dei pianti, e anche dei no. Ma noi sappiamo bene che non esistono né case né famiglie perfette.
A volte la scuola è il luogo della frustrazione cocente, del non saper fare o del non poter fare abbastanza, degli appuntamenti mancati, delle frasi non capite, ma resta, pur sempre, il luogo in cui illuderti - con loro - di poter ancora cambiare rotta, per ricominciare ogni giorno, tutto daccapo.
Ci sono gli occhi di Olga a ricordarmelo.
«Ha 15 anni, la stessa età di mio figlio, solo che lei viene da un contesto che noi insegnanti definiamo deprivato»