Il punto
L’ostilità verso l’industria ha cambiato in peggio la storia del ‘900 italiano
Un pregiudizio antindustriale ha attraversato indenne il ‘900 e continua a gravare sulla cultura italiana. È l’ipotesi analitica di «La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana», un recente, importante saggio dell’italianista e romanziere Giuseppe Lupo
Un pregiudizio antindustriale, quindi di fatto antimoderno, ha attraversato indenne il ‘900 e continua a gravare sulla cultura italiana, animato dai nostri letterati, con rare eccezioni fra cui spiccano le personalità di Adriano Olivetti, Elio Vittorini, Leonardo Sinisgalli e Ottiero Ottieri. È l’ipotesi analitica, suffragata da una messe filologica tanto ampia quanto serrata, di La modernità malintesa. Una controstoria dell’industria italiana, un recente, importante saggio dell’italianista e romanziere Giuseppe Lupo, lucano di Atella trapiantato a Milano dove insegna all’Università Cattolica (Marsilio ed., pagg. 362, euro 20,00). Non è una questione da poco, perché tale «ipoteca» sotto il segno del passato respinge continuamente all’indietro l’immaginario del Paese e del Sud in particolare, verso un’arcadia bucolica e la presunta armonia perduta del lavoro contadino.
La fabbrica, invece, è identificata tout court con l’alienazione dei Tempi moderni, ma senza la geniale, leggiadra ironia che fu di Chaplin, anzi, con la gravitas ideologica a lungo egemone nella sinistra italiana. Così, da una parte la catena di montaggio e dall’altra la diffusione del benessere grazie al «miracolo economico» fine anni ’50-primi ’60 vennero ben poco raccontati e mai davvero compresi dagli scrittori dell’epoca (più sveglio nel «decostruire» anche stilisticamente lo spirito del tempo fu invero il cinema di Fellini, Antonioni, Risi). «Mentre in quegli anni una famiglia media italiana inseguiva legittimamente il sogno di cambiare vita... gli intellettuali continuavano a rimanere chiusi in un’anomala torre d’avorio che altro non era se non una latente e paradossale antimodernità». Ecco il vero «tradimento dei chierici».
Questa disattenzione, per usare un eufemismo, contagia persino gli autori più sensibili alle trasformazioni sociali e culturali del dopoguerra come Giudici, Bianciardi, Fortini, Volponi, Eco e lo stesso Calvino con la sua voglia di «leggerezza» che tuttavia non scalfisce, sostiene Lupo, il fondo «apocalittico» evidente per esempio in Marcovaldo. D’altro canto, si legge in La modernità malintesa, il protagonismo/antagonismo operaio, le aporie della massiccia emigrazione da sud a nord, l’autenticità del lavoro fordista rimangono a loro volta sullo sfondo, bene che vada ridotti a terreno di battaglia politica o disputa colta. Tutto ciò permane fino all’epocale crisi degli anni ’80-90, all’impeto del capitale finanziario e all’avvento della globalizzazione (Cina, India, America in casa nostra) che condurranno alla simbolica Dismissione, per dirla col celebre titolo di Ermanno Rea sull’Ilva di Bagnoli (Rizzoli 2002), romanzo portato sullo schermo da Gianni Amelio in La stella che non c’è. Ma anche dove la fabbrica resiste, vedi Taranto, si sviluppa «una letteratura di autorappresentazione apocalittica» che alle contraddizioni del presente predilige il rimpianto pasoliniano o la chimera di un improbabile ritorno alla madre terra. Per quanto non manchino le eccezioni di pregio, fra le quali Lupo allinea con varie sfumature i libri di Carlo Bernari, Luigi Davì, Sergio Civinini, Giovanni Pirelli, Raffaele Nigro, Tommaso Di Ciaula, Edoardo Nesi, Andrea Di Consoli, Antonio Pennacchi, Cosimo Argentina...
Il quid del saggio è la rimozione o l’esorcismo della realtà, cioè dell’incipiente modernità e quindi della sua torsione post-moderna, a dispetto delle visioni di giganti quali Vittorini, Olivetti o il lucano Sinisgalli che consacrò la sua rivista più feconda alla «Civiltà delle macchine» (adesso rinata a cura della Fondazione Leonardo). «Negli anni cinquanta e sessanta, quando il processo di trasformazione del paese coincideva con la realizzazione dell’utopia olivettiana, l’ingegnere Adriano non godeva di particolare simpatie in seno all’establishment industriale, che osservava con sospetto il suo welfare innovativo». Per le leggendarie Edizioni di Comunità, fondate appunto da Olivetti, nel 1961 esce L’eclissi del sacro nella civiltà industriale del sociologo Sabino Acquaviva, tra l’altro a lungo collaboratore della «Gazzetta», che finalmente non demonizzava l’industrializzazione: «altrimenti si cadrebbe nell’errore (purtroppo serpeggiante) di credere che la modernità sia semplicemente la manifestazione di un laicismo anticristiano».
Così non è, difatti. Il progresso, condividiamo l’esergo scelto da Lupo, somiglia alla tempesta che s’impiglia nelle ali dell’Angelus Novus, l’angelo della storia che ascende volgendo le spalle al futuro, nel celebre frammento di Walter Benjamin. Il tormento del secolo XX, «moderno e antimoderno» secondo Cesare De Michelis, è un’eredità che ci riguarda nella temperie di ogni giorno, troppo spesso letta con le lenti deformanti della nostalgia.