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Antigone non ama
Eva Cantarella e la sua “revisione”
In principio fu la vendetta privata: siamo nella Grecia arcaica e non esistevano ancora tribunali e leggi. L’Areopago venne istituito per punire i crimini di sangue e ne reca traccia l’ Orestea di Eschilo; le leggi di Dracone e di Solone ad Atene furono una tappa essenziale nell’evoluzione della polis greca e recavano quasi un’aura di sacralità. Il cittadino greco non esisteva al di fuori del contesto della polis e per questa ragione l’ostracismo ossia l’esilio era particolarmente temuto. In questo contesto storico si inserisce la rilettura critica di uno dei personaggi più noti della tragedia greca, Antigone, protagonista della omonima tragedia di Sofocle, che viene reinterpretata da Eva Cantarella nel suo bellissimo saggio Contro Antigone o dell’egoismo sociale, Einaudi tascabili. Eva Cantarella non ha bisogno di presentazioni: figlia del celebre Raffaele, grecista, bizantinista e traduttore, si è specializzata in Diritto romano e greco antico che ha insegnato a Milano in qualità di docente universitaria. Autrice di moltissimi saggi divulgativi sulla civiltà greco-romana, Cantarella affronta il delicato tema della revisione del personaggio di Antigone che - lei ammette - aveva suscitato in lei forti perplessità fin dai tempi del liceo. L’interpretazione in chiave romantica dell’eroina tragica ne ha fatto l’emblema della difesa dei diritti civili contro un potere tirannico e oppressivo. La storia è nota: Antigone è la figlia di Edipo, che appartiene alla famiglia “maledetta” dei Labdacidi, segnata da un destino infausto, giacché il figlio ha ucciso e detronizzato il padre Laio e sposato la vedova/madre Giocasta. I figli di Edipo sono dunque i frutti di un incesto: madre e figlio hanno generato insieme Antigone, Ismene e i due fratelli Eteocle e Polinice. Quando Edipo apprende la terribile verità da Tiresia si acceca con uno spillone per punirsi di non aver saputo “vedere”quando sarebbe stato necessario; vecchio e malato si avvia verso il sobborgo ateniese di Colono guidato dalla figlia Antigone e qui muore nella “grazia degli dei”, riconciliato con essi. Egli non ha saputo e potuto avversare il suo fato e il marchio d’infamia investe i suoi stessi figli maschi, spingendoli ad uccidersi sotto le mura di Tebe per il potere sulla città. Di essi Eteocle è considerato un eroe, difensore di Tebe mentre Polinice è l’aggressore, il nemico della città che aveva tentato di espugnare con la forza. Il re Creonte delibera così che il corpo di Polinice resti insepolto, cibo per gli uccelli e i cani fuori dalle mura cittadine. Ed è qui che Cantarella propone uno snodo importante della narrazione: l’editto di Creonte è legge dello Stato, consuetudine peraltro molto praticata nell’antichità come ci attesta l’epos di Omero a proposito della sepoltura del corpo di Ettore, sfregiato e lasciato insepolto dal crudele Achille che in un primo momento rifiuta la “poinè” cioè l’indennizzo in oro proposto dal vecchio Priamo postulante alla sua tenda. Sappiamo tutti come andò a finire ma ciò non toglie che il corpo del nemico appartenesse al suo assassino che poteva disporne come voleva. Creonte applica le legge: lungi dall’essere un tiranno insensibile, nella analisi di Cantarella ritiene giusto non concedere gli onori funebri a un nemico della patria. Antigone dunque contravviene a una legge della polis: nessuna argomentazione della sorella Ismene, al principio della tragedia, sembra smuoverla dal suo tenace proposito. Cantarella rilegge il dramma alla luce della considerazione delle leggi della polis, sacre e inviolabili, e sottrae ad Antigone quell’aura eroica di cui ha sempre goduto. Cosa spinge Antigone alla ribellione ostinata? L’amore per il fratello Polinice, l’odio verso Creonte, o piuttosto una prepotente vocazione alla morte che lei ritiene il minore dei mali rispetto a una vita odiosa e intollerabile? L’autrice commenta : “Vittima com’è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama se stessa: il suo solo e vero amore è la morte”. Una nichilista inflessibile, una donna intransigente, incapace di parole d’amore sia nei confronti della sorella Ismene - che accusa di viltà poiché non intende aiutarla - sia verso il suo fidanzato Emone, figlio di Creonte, che rappresenta una tragedia nella tragedia. Antigone non lo cita neppure in tutto il corso del dramma mentre lui, dinanzi al corpo privo di vita di lei, accetta di morire perché gli è insostenibile una vita senza la sua amata. Già, perché Antigone, condannata a essere sepolta viva in una grotta sotterranea per aver disobbedito alle leggi della città, si uccide per impiccagione trascinando nel suo furore di morte lo stesso Emone e la madre di lui Euridice, suicida alla notizia della perdita del figlio. Il personaggio più tragico secondo Cantarella è proprio lui, Creonte, che alla fine perde tutto mentre Antigone ha perso solo ciò che detestava di più, cioè la sua stessa vita. Di Creonte non restano che le parole conclusive:” Allontanatemi al più presto, portatemi via, io non sono altro che nulla”.