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L’emancipazione imperfetta e la dignità dei diritti e dei corpi

Lara Laviola e Giacomo Fronzi

Saper parlare di noi senza parlare solo di noi, e perciò affermarci come soggetti attivi, anziché rimanere oggetti del discorso, è quasi sempre la chiave per acquisire credibilità. Come saper parlare di femminismo senza dover parlare sempre ed esplicitamente di femminismo, come fa Adriana Cavarero, ordinario di filosofia politica all’Università di Verona e più volte invitata come Visiting Professor, tra le altre, a Harvard, Berkeley e New York University.

Nel suo ultimo libro, Il canto delle Sirene, rielabora l’immagine consueta delle Sirene, solitamente descritte come creature arcaiche, seducenti e minacciose, proponendole invece come figure autonome: donne che cantano per sé, che celebrano la propria voce e vivono la musica come un’esperienza condivisa, capace di sottrarsi ai vincoli rigidi del logos. Attingendo dalla sua ampia formazione, Cavarero riesce a svincolarsi dalle mode e dalle ristrettezze dei dibattiti d’attualità - che negli ultimi
tempi ci hanno mostrato tutti i loro limiti.
Probabilmente, uno dei modi migliori per cercare di comprendere la realtà è quello di guardarla da prospettive differenti, avvalendosi di chiavi interpretative diverse. Forse è proprio anche questo che rende sempre molto interessanti le analisi proposte da Michela Marzano, intellettuale che si divide tra la scrittura di saggi filosofici e di romanzi (l’ultimo, Qualcosa che brilla, è uscito da poche settimane).
Marzano ha senza dubbio riflettuto in modo profondo, nelle sue vesti di filosofa e di scrittrice, sulla fragilità della condizione umana, sulla complessità dei vissuti, sull’inevitabilità (e sulla potenziale fecondità) della ferita interiore, ma anche sullo specifico tema della violenza sulle donne, sia essa economica, linguistica, psicologica o fisica. Potremmo anche collocare la voce di Marzano, professoressa ordinaria di Filosofia morale e preside della Facoltà di Scienze Umane e Sociali dell’Université Paris Cité, all’interno della ricca e diversificata storia del femminismo.

In una sorta di forum virtuale Icaro ha posto ha posto alcune domande a Cavarero e Marzano.

Cosa ha significato, per la sua storia personale, essere femminista?
Cavarero: «È difficile rispondere, nel senso che fa proprio parte della mia vita. Io avevo vent’anni nel ‘68, per cui ho partecipato a questo movimento politico globale che toccava qualsiasi studentessa universitaria. Anche durante la cosiddetta rivoluzione studentesca si percepiva il permanere di uno schema maschilista. Quelle della mia età venivano chiamate “gli angeli del
ciclostile”. Quindi a servizio, diciamo, di un movimento studentesco. Per questo si è creata una solidarietà fra donne e sono nati i gruppi di autocoscienza. Tutto questo fa parte della mia formazione da giovane, ed è un orientamento che poi mi ha accompagnato per tutta la vita. Perché è un tipo di politica che è sociale, riguarda la collettività, riguarda un’idea di società, di giustizia, ma passa anche attraverso l’esperienza personale del sé».
Marzano: «Essere femminista, per me, non è mai stato uno slogan né un vestito da indossare nelle occasioni giuste. È stato (ed è ancora) un modo di stare al mondo. È stato il femminismo a insegnarmi che il valore di una donna non coincide con ciò che gli altri si aspettano da lei. Il femminismo mi ha offerto parole per nominare ciò che non sapevo dire. Mi ha aiutata a capire
perché tante donne (e anch’io, per molto tempo) confondono l’amore con l’annullamento di sé, il
sacrificio con la dignità, il silenzio con la pace. E poi, il femminismo mi ha dato una responsabilità di non tacere. Non tacere quando vedo ingiustizie. Non tacere davanti alle violenze che attraversano la nostra società come un fiume scuro che si finge sotterraneo ma continua a trascinare tutto. Essere femminista, per me, è credere nella libertà — la propria e quella degli altri. È sapere che nessuna emancipazione è possibile se non diventa collettiva. È continuare a chiedersi: quale immagine di donna stiamo ancora trasmettendo? Quali parole, quali narrazioni, quali sguardi?».

Quali differenze crede che ci siano tra il femminismo degli anni Quaranta, che ha contribuito a raggiungere il traguardo del suffragio universale maschile e femminile, e quello di oggi?
Cavarero: «Sono differenze sempre legate anche al contesto storico, la prima ondata del femminismo era un’ondata sostanzialmente emancipazionista, si lottava per la parità, per il voto alle donne che era negato. Il contesto nel quale sono cresciuta è invece un contesto nel quale l’emancipazione non era mai perfetta, però aveva avuto grandi risultati e quindi il contesto era quello dell’espressione di una soggettività femminile, ossia l’espressione di quello che noi chiamiamo un ordine simbolico femminile nel quale riconoscersi. Secondo me ogni generazione deve cercare il suo femminismo. La generazione più giovane, alla quale io non appartengo, è una generazione dalla quale mi aspetto che continui nella ricerca di una soggettività femminile libera, che continui nella creazione di un ordine simbolico dove le donne non compaiono come vittime, ma compaiono invece come soggetti attivi, affermativi».
Marzano: «Il femminismo degli anni Quaranta era un femminismo della sopravvivenza. Un femminismo che chiedeva l’ovvio: poter esistere come cittadine, parlare in pubblico, agire politicamente, uscire dal ruolo domestico che la società aveva costruito per noi. Oggi il femminismo è cambiato perché è cambiato il mondo e sono cambiate le forme del dominio. Non basta più poter votare o lavorare. Non basta poter studiare, firmare contratti, avere accesso alla vita pubblica. Perché la disuguaglianza non si gioca più (solo) sul piano dei diritti formali, ma su quello più profondo dei legami, dei corpi, dei desideri, della libertà interiore. Se quello degli anni Quaranta era un femminismo dell’“avere diritti”, quello di oggi è un femminismo dell’“avere voce”,
“avere spazio”, “avere dignità”. Il femminismo di allora chiedeva uguaglianza davanti alla legge. Il femminismo di oggi deve affrontare tutto ciò che la legge non vede. Oggi non rivendichiamo più “solo diritti”: rivendichiamo la possibilità di vivere pienamente, senza paura, senza vergogna, senza dover chiedere scusa per il proprio spazio nel mondo».

Cosa ne pensa delle nuove indicazioni linguistiche proposte dai movimenti femministi di oggi, come l’eliminazione della parola donna (teoria del gender fluid) o la sostituzione della distinzione uomo/donna con asterisco o schwa?
Cavarero: «È molto difficile sintetizzare questi dibattiti in poche battute, perché si rischia di dire cose superficiali che peggiorano la situazione. Io rimando al mio libro che ho scritto con Olivia Guaraldo che si chiama Donna si nasce (Mondadori). Possiamo dire che al centro delle esigenze della galassia LGBT di imporre un codice linguistico, un disciplinamento del linguaggio, c’è una
attenzione per le minoranze, ma le soluzioni trovate per dare attenzione alle minoranze non possono andare a discapito della storia della libertà delle donne. Nell’adozione di un certo linguaggio (ad esempio l’uso degli asterischi), io penso che non vi sia una forma di semplificazione volta all’inclusione, io credo che si tratti di opere affermative: penso che la loro impostazione sia
quella di abbracciare delle ideologie che sono di tipo individualistico. Trovo che dire che ognuno è del sesso che si percepisce sia una forma di individualismo estremo che viene abbracciato un po’ acriticamente, pregiudizialmente e che l’effetto sia la negazione della specificità e della libertà femminile».

Marzano: «La lingua è viva. Cambia, si trasforma, si adatta ai mutamenti sociali. E ogni trasformazione linguistica nasce sempre da un bisogno: dare spazio a ciò che non trova ancora posto, includere chi altrimenti resterebbe fuori. Detto questo, io non credo che sia necessario eliminare la parola donna. Anzi, penso che sia una parola preziosa, conquistata con fatica, con
lotte politiche e civili, con la presa di coscienza di una soggettività a lungo negata. Svuotarla o cancellarla non aiuterebbe nessuno: significherebbe perdere un pezzo di storia, un pezzo di realtà, un pezzo di battaglie che hanno permesso a tante di noi di essere qui, oggi. Ma allo stesso tempo penso che la lingua debba essere abbastanza ospitale da accogliere chi non si riconosce nelle categorie tradizionali. Le forme inclusive (l’asterisco, lo schwa, ecc.) sono tentativi di ampliare lo spazio del possibile, di far posto a identità che la lingua, finora, ha invisibilizzato o marginalizzato. Per me la questione non è scegliere tra donna e schwa, tra identità femminile e identità non binarie. La questione è riconoscere che la lingua può essere plurale, capace di dire la complessità».

I movimenti femministi sembrano espandersi notevolmente, tanto che quasi tutte e tutti si dichiarano femministi. È davvero così? Questo fa bene al dibattito o rischia di produrre pressappochismo e conformismo?
Cavarero: «Quello che registro è che tutti dichiarano che c’è violenza sulle donne e che bisogna fermarla, ma non si dichiarano femministi, è qualcosa che non si trova quasi mai. Lei mi trovi una dichiarazione in cui un uomo che dice: sono femminista. Un uomo può dire sì, le donne subiscono violenza, bisogna fermare questo fenomeno. L’empatia generale che si può provare per le donne che subiscono violenza non corrisponde poi a una comprensione della radicalità del problema, perché la radicalità del problema è quello che chiamiamo l›ordine patriarcale, parola che non viene mai accettata. La radicalità del problema è una scarsa consapevolezza una scarsa autocritica degli uomini, dell’essere uomo in questa società. Non si va alla radice della rimozione dello stereotipo, si dice le donne sono oggetto di violenza, bisogna fermare questo. E poi in genere si dice: “gli uomini sono violenti, ma io no!”. Durante i dibattiti televisivi non dicono mai che esiste un ordine simbolico dove l’uomo è padrone, crede di avere il possesso del corpo della donna. Non fanno questi discorsi, non si va mai al di là di discorsi superficiali e non c’è nessuna volontà di capire qual è il nocciolo del problema».

Marzano: «Che sempre più persone si dichiarino femministe è, in sé, un segno positivo. Significa che le battaglie portate avanti per decenni non sono più percepite come di nicchia, ma come questioni che riguardano la vita di tutti: la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la dignità. Il femminismo non è un club esclusivo, non richiede tessere d’ingresso: è un modo di guardare il
mondo, di mettersi dalla parte di chi subisce violenza, discriminazione, esclusione. Ma è vero anche che, quando una parola diventa troppo ampia, rischia di diventare vaga. Se tutti sono femministi, allora nessuno lo è davvero. Se basta un post sui social o una frase di circostanza per dichiararsi “femminista”, si perde il senso profondo di ciò che il femminismo ha rappresentato – e rappresenta ancora: il coraggio di mettere in discussione il potere, di interrogare i propri privilegi,
di cambiare il modo in cui guardiamo le relazioni, il corpo, il desiderio, la libertà».

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