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Amleto era socialista: l’intellettuale e i suoi dubbi

dorella cianci

Resta aperto l’interrogativo fra l’auspicabile tensione etica e la fragilità dell’azione

Carlo Levi disse, anche con un po’ di ironia, Amleto era socialista (titolo di un articolo in parte disperso persino negli archivi), combattuto in quell’eterna lotta fra la tensione romantica, legata alla descrizione di una “civiltà contadina”, e la trasformazione inesorabile della società. A più di settant’anni dal dopoguerra, la rilettura di Levi continua a offrire strumenti utili per riflettere sull’oggi, in una dimensione non solo economica, ma anche antropologica e culturale. Innanzitutto potremmo ricordare che, per Levi, l’essere socialisti voleva dire scegliere l’“umano” contro il potere e contro l’eccessiva enfasi posta sul progresso (anche tecnologico). Per due anni, collaborò a L’Italia socialista (dal 1947 al 1949) e da questo quotidiano emergevano interessanti ritratti politici fra testi e disegni. È in questo contesto che andrebbe collocato il personaggio shakespeariano, tormentato e riflessivo, in quanto simbolo della condizione degli intellettuali di quegli anni, costretti a scegliere, dove possibile, fra la realpolitik e una visione più utopica legato al bene comune.

Nel contrasto fra “contadini” e “luigini” (simbolo del potere paludato) sarebbe necessario riesaminare la collocazione degli scrittori, dei poeti, degli accademici e di tutti gli artisti. Eppure, dopo molti studi sul pensiero leviano, non possiamo rispondere in maniera netta a questo interrogativo, poiché lui stesso non ha sciolto il “dubbio amletico” legato alla dimensione, a volte ondivaga, della condizione intellettuale. Possiamo, però, aggiungere come la sua scrittura - che ha saputo mettere insieme pittura, satira, impegno politico, medicina umanistica e racconto antropologico - ha costituito una visione italiana concentrata sui margini e sui confini, partendo dalla sua terra, la Basilicata, e dalla condizione contadina. In quel preciso frangente storico, il nostro autore considera il Meridione non come un luogo arretrato rispetto al resto del Paese (come in quel momento si voleva affermare a più livelli), ma come un mondo radicalmente “altro”, non valutabile coi parametri del confronto Nord/Sud. Per Levi, la sua Lucania, ad esempio, funzionava secondo logiche intrinseche, modellate fisiologicamente contro i processi di modernizzazione, eppure custodi della ritualità e delle feconde relazioni sociali. Quel Sud dell’Italia non solo era “resistente” alla modernità, ma era impermeabile ai fascismi, col loro dispotismo socio-economico. Risuona ancora in noi una domanda: questo dispotismo tecnologizzato, modellato sugli algoritmi, chi sta lasciando indietro? Non stiamo qui tentando di attualizzare, a tutti i costi, Carlo Levi, ma i suoi scritti, nel nostro orizzonte contemporaneo, hanno implicazioni rilevanti per tutti i Sud del mondo, costantemente svuotati di umanizzazione. Oggi guardiamo a questo pensiero sottolineando come i margini geografici non devono (e non possono) coincidere con le periferie della modernità. Il pensiero sociale ed economico di Carlo Levi, in questo scenario geopolitico, assume contorni più sfumati, ma ne mantiene l’essenza.

Viene da chiedersi se l’intellettuale odierno sia ancora predisposto al dubbio amletico, capace di provare vera indignazione verso le ingiustizie sociali. Resta aperto l’interrogativo fra l’auspicabile tensione etica e la fragilità dell’azione. Ad ogni buon conto, per tracciare ulteriormente la traiettoria politica di Levi, potrebbe essere utile menzionare anche il suo primo viaggio negli Stati Uniti con Ferruccio Parri, nella primavera del ’47. I motivi di quella trasferta erano storici: l’Italia stava per essere annessa all’Unrra e stava per arrivare il Piano Marshall. Nacque da qui un altro suo pezzo giornalistico fondamentale, dal titolo Guerra e pace, che si ricollega densamente all’idea di Amleto era socialista. Dinanzi all’esigenza della pace, il pensiero leviano non sceglie il dubbio, questa volta, ma auspica la concretezza pacifista, composta non solo dall’assenza della guerra, ma da una vera e propria ricostruzione politica e spirituale delle genti. Era un modello per Levi l’America, che aveva dato una gran mano all’Italia del boom? In parte sì, ma un modello – negli anni futuri – non veramente auspicabile per il tessuto antropologico italiano.

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