Icaro

L’urlo dell’architettura

ALESSANDRA LOGLISCI

Abitare le guerre

L’architettura è specchio della società e “ascoltarla” potrebbe essere un buon mezzo per comprendere la realtà. Nella storia, il modo di progettare e il lessico architettonico sono cambiati. A plasmarli e influenzarli i mutamenti culturali, storici, sociali, antropologici, economici.

Oggi viviamo in un periodo in cui nuvole di guerra si addensano all’orizzonte e ci sono posti (ahinoi a tutti noti) in cui la tempesta è già arrivata e infuria.

L’architettura nasce dall’ancestrale esigenza dell’uomo di proteggersi dagli agenti atmosferici e dai pericoli; il “tetto” (o la copertura) è l’elemento simbolico e concreto di questo bisogno.

Ed è proprio il tetto il primo a crollare quando arriva la bomba. L’architettura, così come finora progettata, potrebbe risultare inadeguata? Come rispondere a questa nuova, minacciosa “quotidianità”? Progetti modulari, edifici con caratteri difensivi integrati oggi rappresentano il nuovo linguaggio; si sta scrivendo una “allarmante” pagina della storia dell’architettura.

La Holy Trinity Church a Kyiv, capitale dell’Ucraina, progettata da Aranchii Architects è un esempio emblematico di questa nuova tendenza. Una calotta cruciforme, concepita secondo gli etimi dell’architettura Parametrica (filosofia progettuale legata all’uso del computer) copre, al di sotto dell’aula, un rifugio sotterraneo antiaereo che risponde alle esigenze di sicurezza, ma anche di aggregazione. Raggiungibile anche dal parco esterno alla chiesa, il rifugio è luogo in cui si riuniscono gli abitanti del distretto di Obolon (zona tra le più colpite dai missili russi) quando il “canto delle sirene” antiaereo impone la fuga.

L’architettura non rinuncia alla forma, la progettazione non rinuncia alla “filosofia” e al linguaggio contemporanei, ma si adatta alle nuove, terrificanti, esigenze di protezione.

Sempre in Ucraina, centro europeo del dibattito sull’architettura di guerra, nel 2024, a Kharkiv, è stata realizzata la prima scuola “purpose- built” in cui si fa lezione sei metri sottoterra anche durante gli attacchi missilistici. Scenari inquietanti che chiamano a progettare nuovi “contenitori”.

Spostando lo sguardo in Israele, invece, è bastato poco più di un decennio perché cadesse la speranza, sbocciata nel 2011 durante la Conferenza ONU sui Cambiamenti Climatici tenutasi a Durban (Sud Africa). All’epoca l’architetto Mario Cuccinella in accordo con l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente) presentava il progetto delle Green Schools, modello di edificio scolastico destinato ai giovani residenti nei campi profughi palestinesi; edifici energeticamente autonomi sarebbero stati realizzati sfruttando esclusivamente le risorse naturali locali (eoliche e geotermiche), mentre, il trattamento delle acque piovane avrebbe provveduto al fabbisogno idrico. Cuccinella prendeva atto di uno scenario già allora catastrofico, ma oggi la situazione è peggiorata in maniera esponenziale. Le scuole sono progettate con rifugi sotterranei integrati e non ci sono ulteriori notizie perché la guerra ha spento anche la “voce” dell’architettura.

Ma l’aspetto che più inquieta dello scenario mondiale è che proprio l’architettura si sta “preparando” anche in luoghi in cui non ci sono attualmente fronti bellici aperti.

In Germania ci sono piani per la riconversione di parcheggi, stazioni e uffici in rifugi urbani mentre in Svizzera si sta riaggiornando la rete di bunker della Guerra Fredda.

Ma dov’è finita la tendenza di qualche anno fa quando, pur riconoscendo un certo valore emozionale e commemorativo, sono stati realizzati interventi di rifunzionalizzazione di bunker militari?

È preoccupante pensare che i monolitici edifici di guerra che poco più di dieci anni fa sono stati ripensati come musei (Sammlung Boros, Berlino; Rifugio Digitale, Archea Associati, Firenze) o come edifici ricettivi (Gruner st. Pauli, Amburgo) o ancora come tappe di percorsi naturalistici (Bunker 599, Utrecht, Olanda, RAAF and Atelier de Lyon) possano tornare alla loro antica destinazione d’uso.

L’architettura sta urlando; l’architettura teme il peggio.

Anche alla Biennale di Architettura aperta fino al 23 novembre 2025 è acceso il dibattito. Nel padiglione della Lettonia, dispositivi di guerra come i cavalli di Frisia e dispositivi anticarro divengono enormi arredi fosforescenti (come se il colore potesse mentire sulla tragica funzione delle forme); tra loro una panchina tradizionale in legno che richiama il passato; simbolo del terrore di perdere l’identità e della necessità di richiamarlo.

“Il nostro messaggio è un segnale d’allarme” afferma lapidaria Liene Jakobsone, una delle curatrici dell’allestimento Lettone.

L’Ucraina invece guarda al futuro, guarda alla ricostruzione o, meglio, all’auto- ricostruzione. L’archetipo del tradizionale tetto in paglia diventa la risposta alla assoluta necessità di ritrovare riparo dopo che tutto è distrutto (e perduto).

Di nuovo un ancoraggio al passato. Ancora il disperato bisogno di tenere salda l’identità del popolo che passa per l’identità dei luoghi (distrutti).

Perché la guerra non è solo morte: è anche distruzione dei luoghi, degli edifici, dell’identità urbana.

L’architettura (e il design) - anch’essi testimoni del tempo - parlano il linguaggio del presente, rinunciando anche al simbolismo per offrire chiarezza e schiettezza sulla condizione di vulnerabilità ormai entrata nel quotidiano.

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