Icaro
Vacanze intelligenti: il segreto? Niente post sui social network
Attraversiamo l’epoca in cui le cose belle vanno nascoste se si ha la sensibilità di difenderle. Sarebbe un guaio gigantesco se di loro si accorgesse lo «sciame», categoria con cui il filosofo tedesco-coreano Byung-chul Han cataloga l’umanità contemporanea
Se girate per il mondo e scoprite qualcosa di bello - magari un borgo, un paesaggio, una spiaggia - non scattate fotografie e non scrivete post. Non chattate, non attivate il passaparola, non ditelo a nessuno. Perché? Perché è il regalo più grande che potreste fare a quel luogo che vi è tanto piaciuto. Ebbene sì, attraversiamo l’epoca in cui le cose belle vanno nascoste se si ha la sensibilità di difenderle. Sarebbe un guaio gigantesco se di loro si accorgesse lo «sciame», categoria con cui il filosofo tedesco-coreano Byung-chul Han cataloga, sulla scia di Bauman, l’umanità contemporanea. Non massa, non folla. Sciame. Ci spostiamo come un’orda di cavallette, scrive lui, da un posto all’altro e con incredibile velocità. Lo sciame è «gregario», poco pensante, segue mode, trend, input esterni. Fa sempre le stesse cose. Sostanzialmente «consuma» i luoghi, talvolta li devasta, di certo li snatura, lasciando un disastro dietro di sé.
Non è forse questa la natura più vera del turista contemporaneo? Oggi chi viaggia lo fa sostanzialmente seguendo lo stesso canovaccio, a qualsiasi latitudine. Si finge curioso, pronto all’esplorazione, disposto a farsi sorprendere. In realtà cerca semplicemente conferme dell’idea del luogo che ha in testa. Un’idea spesso posticcia, stracciona, caricaturale. Se viene in Italia si aspetta di veder spuntare un centurione con gladio in mano o un Pulcinella con pizza al seguito, a seconda che vada a Roma o a Napoli. Non nutre alcun interesse verso l’«anima» del luogo, quella vera, non artefatta. Brama lo stereotipo, il pittoresco. E pretende che tutto sia a sua misura, che il luogo si pieghi e si adatti alle sue necessità. «Dov’è il wi-fi?», si domanda il turista con la paglietta attraversando in canoa del Rio delle Amazzoni.
Da «logocentrico», cioè basato sulla parola e sul racconto, com’era nell’Ottocento, il turismo oggi si è fatto «oculocentrico», tutto spalmato sull’immagine, sull’impressione da catturare. E la scena deve prestarsi, ha bisogno di essere decostruita e rimontata a favor di videocamera. Purtroppo, la faccenda è più grave di quanto si pensi: non ci sono solo un aggressore e un aggredito, come si racconta nelle favole della buonanotte sulle guerre in corso. Qui ci sono un aggredito (il luogo) e ben due aggressori: il turista, certo, ma anche l’indigeno che lo accoglie, tutto preoccupato di far trovare alle cavallette ciò che bramano. E giù con le grandi catene commerciali, cinque ristoranti a isolato, dieci b&b a palazzo. Come scriveva Marguerite Yourcenar «è il turismo a selezionare il mondo», non il contrario. E quando lo sciame passa perché è finita la stagione o, semplicemente, s’è spostato da un’altra parte, il comune cittadino resta solo con il disastro in mano, passeggiando stranito in una specie di Dubai dei pezzenti identica ai suoi omologhi di tutto il mondo. Non sa dove si trova mentre, dall’altra parte, il turista, alla fine, non ha la più pallida idea di dove sia stato, avendo fatto sostanzialmente le stesse cose che avrebbe potuto fare ovunque. Un disastro che vive di guadagni facili, ma transitori, e di traversate inutili quanto dispendiose.
Non si tratta di resuscitare il Grand tour, che era un pellegrinaggio per aristocratici privilegiati, e nemmeno di menarsela da flaneur anche se «passeggiare avendo in tasca soltanto le mani», come suggeriva Franco Cassano, a qualcuno non farebbe male. Piuttosto, bisognerebbe semplicemente fare un passo di lato, staccarsi dello «sciame» e dalla sua postura predatoria. Vivere i luoghi, anziché consumarli. Mettersi in discussione, anziché pretendere che sia l’altro da sé a conformarsi. Scoprire il nuovo, anziché cercare approdi sicuri per le proprie convinzioni. Provare a cambiare, insomma, lasciando a casa la parte di più conformista di noi che, poi, è sempre la peggiore: «A che serve viaggiare - si chiedeva Seneca - se non riusciamo ad evitare noi stessi?».
Vale per il mondo tutto e ancora di più per il nostro Mezzogiorno, ormai convinto di attraversare il «secolo cinese» o la «società del rischio» (Urlich Beck) a colpi di spritz e ombrelloni. Senza produrre nulla, senza investire, senza studiare. Un popolo di bagnini e camerieri. Al servizio di uno sciame che, prima o poi, si stancherà di farsi rapinare. E si accorgerà che in fondo quel ristorante asiatico a Bari non era così diverso da quello provato a due isolati da casa propria. Forse in quella città di mare c’era qualcos’altro. Chissà.