Ritorna l'antico gnomo delle favole
Da Putignano a Melfi è Carnevale ogni «scazzamuriello» vale
di Raffaele Nigro
Vi racconto una storia. Tra le notizie che il medico Vincenzo Bruno di Melfi trasmise nel saggio I tre dialoghi delle tarantole, del vivere e morir bene e delle pietre preziose (Napoli, Tarquinio Longo, 1602), fece accenno a un personaggio della fantasia popolare che penetrava nelle case e metteva a soqquadro la vita della gente. Era lo scazzamuriello. Questa creatura, alta sì e no mezzo metro, vestito da folletto con pantaloni alla caviglia, piedi unghiuti e in testa un cappuccio rosso, si faceva vivo prevalentemente di notte, si divertiva ad annodare in trecce le criniere e le code dei quadrupedi e i capelli lunghi delle donne, dopodiché saltava sulla pancia dei dormienti e si divertiva a pesare sugli stomaci costringendo i malcapitati a svegliarsi col fiatone e col cuore che pulsava a mille. Il Bruno voleva certamente italianizzare il nome del folletto, che nei dialetti lucani e pugliesi prende nome di scazzamauridd e scazzaridd. Una variante del nome è munaciedd e monacello, ma io terrei diversificate insieme al nome i soli vestiari dei due soggetti, in quanto il monacello veste di bianco e nero, alla maniera dei domenicani e in testa porta sempre un cappuccio.
Questa creatura magica non è cattiva, ma ridanciana e sorniona, il massimo del male che porta ai suoi perseguitati è il peso del corpo sulle pance, il solletico e tutt’al più una scarica di pugni e calci negli stinchi. Ricordo che certe mattine mia madre si alzava sfatta dal letto e diceva che era stata perseguitata dallo scazzamauriello. Così imparai a ripetere anch’io. Anzi io speravo che lo gnomo venisse a trovarmi di notte, perché ero stato addestrato a ingaggiare una lotta furibonda con lui oppure a distrarlo con le mie parole fino a rubargli il cappuccio rosso. Col cappuccio stretto nel pugno cominciavo a contrattare. Il folletto mi implorava di restituirgli il cappuccio, io di rimando dicevo che glielo avrei restituito se mi avesse portato una cassa di monete d’oro. Il sogno all’improvviso interrotto mi lasciava con la refurtiva in possesso, una partita che avrei chiuso al prossimo sogno.
Di giorno il folletto si ripresentava per strada in forma di soffione. Inseguivamo le piccole e grandi palle volanti portate dal vento e afferrandole eravamo istruiti a staccarne un pezzetto e a conservarlo. Era il cappuccio dello scazzamauridd e lo avremmo restituito se tornando a casa ci sarebbe stato dato di trovare un qualche tesoro. Lo scazzamauridd si ripresentava nei soffi di vento che mulinavano nei ripari delle prospettive delle case, oppure a ridosso delle siepi. Era il vento che si incapricciava e che aveva alla guida questo folletto mattacchione.
La fisionomia del folletto era quella dei troll scandinavi, quella dei sette nani di Biancaneve e più tardi, leggendo i libri di Carlo Levi, di Giambattista Bronzini e di De Martino ho intuito che aveva molto a che fare con la sessualità maschile, col cappuccio di cui la religiosità ebraica sa come liberare i neonati. Ma le case dei nostri avi non erano abitate esclusivamente dai folletti, erano l’asilo della fata benigna, forse quella di Pinocchio e che da noi si chiamava Bella ‘Mbriana.
A questo punto, perché non richiamare dal mondo fantasioso dell’infanzia collettiva queste creature e non utilizzarle come maschere? Lo abbiamo fatto a Melfi, con l’aiuto di Giuseppe e Tommaso Genco, cartapestai di Putignano. Due geni della creazione di soggetti molto fumettistici, belli e fantasiosi. Gli scazzamauridd sono diventati in un soffio le maschere ufficiali del nostro carnevale. E li abbiamo fatti affiancare da altre creature che da sempre vivono per le strade notturne della nostra città. Tanto per non lasciare da soli i folletti o monacelli che dir si voglia. Gli abbiamo messo intorno il grassiere, ovvero l’ufficiale della grascia dell’antico esercito spagnolo di stanza tra la dogana delle pecore e la terra di Basilicata. Erano i percettori delle tasse sugli animali e insieme sulle famiglie, gli antichi fuochi. Anche di questi io ricordo che le mamme raccomandavano ai figli di non camminare per strada durante la controra, perché i grassieri si affacciavano dalle cantine e dalle arcate e rapivano i bambini. Era un mondo di paure e di minacce. Un mondo in cui le creature reali diventavano negli anni fantasmi e miti.
Ricordo che a Capodanno, alla Befana e a Carnevale radunati in gruppi mascherati giravamo per vicoli e rioni sbattendo vecchi coperchi e producendo un fracasso infernale. Erano i caccavicchi, una maniera arcaica e spassosa di risvegliare i vicoli, di comunicare l’allegria. Agli scazzamauriddi abbiamo fornito i caccavicchi e il gioco si è completato. Perché per questo carnevale all’improvviso tutte le scuole del Vulture hanno dato il loro assenso. Intanto il Liceo Artistico ha sposato il progetto di disegnare i folletti e dare loro un vestiario e una fisionomia, mentre l’Aias, l’associazione dove si aiutano i diversamente abili a nascere una seconda volta, ha offerto asilo e manodopera. È bellissimo vedere questi giovani imbrattarsi di argilla e colori, tagliare quotidiani e cartoni e dare anima ai folletti, agli animali fantastici, agli aquiloni. Ma, quando meno ci se lo aspettava i richiedenti asilo hanno proposto di costruire un carro. Li ho visti armeggiare, tagliare e incollare. Ne è nata una sagoma gigantesca del’Africa, intorno alla quale balleranno gruppi di africani appena usciti dalle foreste.
Io credo che anche il convegno sul carnevale del Mediterraneo che l’Università di Bari organizza da cinque anni e che in questa tornata ospita gli spagnoli, dopo i greci e i magrebini, si ritroverà a proprio agio e in tema. E con loro ospiteremo i rappresentanti dei carnevali lucani, che da poche settimane si sono consorziati. Parlo dei Rumiti di Satriano, delle Maschere cornute di Aliano, dei Campanacci di San Mauro Forte, delle vacche e dei tori in transumanza di Tricarico, degli orsi di Teana, dei domini di Lavello. Faranno festa a Farinella di Putignano, una grande festa abbellita dalle torri umane di Irsina, quello che da noi si chiama Scaricavascio. Si tratta di un edificio umano nato forse nel 1799, stando a ciò che i partecipanti cantano: «Voi che state di sopra/ statevi attenti che non cadiate/ che se si spezza il ramo di sotto/ ve ne andate a capo sotto». La tiritera fa poi appello a due popolani, Mariantonia e Pizzicatonio. E volete che non diventassero anch’essi personaggi in questo carnevale che scava nella nostra antica e robusta civiltà?