a un anno dalla morte

Quando Eco attaccò gli imbecilli del web

Oscar Iarussi

Scende i gradini velocemente, Marcel Proust, quasi che voglia sottrarsi alla cinepresa, forse presagendo il rischio di essere «scoperto» in un futuro più o meno lontano. Così è avvenuto. L’ultimo numero della «Revue d’études proustiennes» (Classiques Garnier ed.) dà notizia del ritrovamento di una ripresa del 1904 nella quale Proust appare durante il corteo nuziale di Élaine Greffulhe, la donna che secondo taluni studiosi avrebbe ispirato Oriane de Guermantes della Ricerca del tempo perduto. Nel filmato in bianco e nero di quattro minuti, Proust fa un rapido passaggio su una gradinata al trentasettesimo secondo: un lampo solitario, una sfumatura di grigio (colore dell’abito dello scrittore) fra i vestiti neri degli altri invitati, ciascuno a braccetto della propria madame, tranne lui. Il reperto è rimasto negli archivi del Centre National du Cinéma di Parigi per oltre un secolo. Dopo la scoperta, è finito subito su YouTube.

L’episodio sarebbe piaciuto - pensiamo - a Umberto Eco, che magari lo avrebbe chiosato da par suo in una «Bustina di Minerva», la sagace rubrica del grande autore scomparso il 19 febbraio 2016. Il ruolo di Umberto Eco nella cultura e nella società italiane del secondo Novecento è paragonabile a quello che ebbero Elio Vittorini, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini: intellettuali a tutto campo, tra letteratura e saggistica, editoria e politica, cinema e stampa. Di più, il piemontese Eco aveva il crisma accademico - per tutti era «il Professore» - in un ambito rivoluzionario nell’Italia storicistica e post-crociana: la Semiotica, la scienza generale dei segni, di cui nel 1975 diventò ordinario a Bologna (dove era appena nato il Dams). Eco era stato un pioniere nell’industria culturale e nell’analisi delle comunicazioni di massa, fin dagli esordi professionali, poco dopo la tesi di laurea in Filosofia sull’estetica di San Tommaso d’Aquino (in seguito ottenne una quarantina di lauree honoris causa dalle università di tutto il mondo). Con Angelo Guglielmi, Gianni Vattimo e Furio Colombo, egli fu assunto alla Rai nel 1954 e si misurò nel lancio dei primi programmi della Televisione, cui avrebbe dedicato parecchi testi tra i quali, nel 1961, una memorabile «Fenomenologia di Mike Bongiorno» confluita nel Diario minimo del 1963. Scrisse Eco: «La situazione nuova in cui si pone la Tv è questa: la Tv non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l’everyman. La Tv presenta come ideale l’uomo assolutamente medio».

E poco dopo Eco coniò la geniale dicotomia «Apocalittici e integrati» rispetto alla cultura di massa. Insomma fu un innovatore instancabile, pronto a traghettare ogni volta il serio nel faceto (e viceversa), a cogliere nessi insospettabili tra Napoleone e Cappuccetto rosso, tra la Filosofia medioevale e Topolino, all’insegna di una versatilità che non rinuncia al rigore.
Studioso dei segni e delle valenze simboliche o delle strutture dell’idioma, Umberto Eco non si ritrasse dalla babele del contemporaneo: il caos non solo delle lingue, ma delle inquietudini esistenziali, degli avanzamenti e delle regressioni di massa, di un «pluriverso» dei significati che sta al cuore del cosiddetto «post-moderno», il nostro tempo. Anche il suo impegno politico, orientato a sinistra, era privo della presunzione tipica di molti intellettuali e durante il ventennio berlusconiano Eco si oppose al Cavaliere riconoscendogli tuttavia la dote di eccezionale comunicatore. «Ma la comunicazione non basta a governare bene», aggiungeva, senza che Renzi e i «leopoldini» ne facessero tesoro.

Per quella sua passione pedagogica verso la mistura, per l’attitudine all’ipertesto e per il gusto della «navigazione», il professore non poteva certo demonizzare internet. Anzi, il web era decisamente «nelle sue corde», ma rifiutò di impiccarvisi. Negli ultimi anni, infatti, il Professore si spese molto contro «il bar dello sport» e «le parole delle legioni di imbecilli» imperanti su Facebook e su Twitter, e si impegnò a favore della lettura e in difesa del liceo classico. Evidentemente coglieva la minaccia dello stupidario della «rete» che non innova più e mortifica il dibattito pubblico, degradandolo in diceria o credenza «virale».
Perciò oggi ci manca la sua attitudine al viaggio nella meraviglia, senza spegnere i lumi della ragione. Intanto, apocalisse e integrazione mediatiche tendono a coincidere nella «vita in diretta» o nel reality show, laddove lo show è talmente rilevante da essere sottinteso. Ne deriva una rovinosa ambiguità lessicale: definiamo «realtà» (reality) ciò che invece è spettacolo, finzione, storytelling. Una simile confusione investe i social network, reti sociali che paradossalmente celebrano il trionfo dell’individualismo, del narcisismo inteso come «neutralizzazione apatica o violenta dell’altro» (Christopher Lasch). Internet e le sue molteplici forme espressive suscitarono all’inizio molte aspettative libertarie e, di certo, stanno trasformando il mondo. L’invito di Eco rimane valido: bisogna verificare ogni volta certe «notizie» che spesso si rivelano false o interessate, al servizio di poteri «invisibili» e insidiosi.

«Vivi nascosto», ammoniva Epicuro, senza cedere alla misantropia. Oggi sarebbe impossibile, né vale rimpiangere «il tempo perduto», il passato. Ma nelle nozze quotidiane con l’insensato sul web possiamo non indulgere alla crapula. E magari scendere i gradini speditamente... Un «proustiano» omaggio a Eco, solo un anno dopo.

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