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Vino per le messe «Made in Scanzano»: in Basilicata la sfida ai clan

 
Carmela Formicola

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Carmela Formicola

Calice vino per le messe

Il progetto della Diocesi di Matera-Irsina intende sottrarre molti migranti al lavoro nero producendo il vino destinato alle parrocchie

Venerdì 17 Giugno 2022, 12:48

SCANZANO JONICO - Il vino per le messe d’Italia sarà prodotto a Scanzano Jonico. Il progetto della diocesi di Matera - Irsina non è soltanto impresa. È una sfida culturale, in una terra di clan e caporali, è un messaggio di speranza, dopo le tragedie note o silenziose che costellano l’esistenza dei migranti in fuga.

Partiamo dall’ex Felandina di Metaponto: un «insediamento informale» (o un ghetto?) che ha ospitato per anni i migranti stagionali impiegati nelle raccolte stagionali del fiorente Ionio lucano. Duecento gli stranieri che albergavano nell’ex comprensorio industriale mai entrato in funzione devastato nel 2019 dal rogo provocato dall’esplosione di una bombola di gas. Un inferno di fuoco nel quale trovò la morte Petty, 20 anni, nigeriana, madre di due figli lasciati in Nigeria. Quei migranti hanno infine trovato accoglienza a Serra Marina di Bernalda in una sede di Casa Betania.

Così prende vita il progetto che riannoda i fili dei diritti dei lavoratori stranieri, della dignità del lavoro e del riscatto sociale, con la nascente cooperativa di Casa Betania che avvia la produzione di vino destinato alla celebrazione delle messe nelle diocesi italiane. D’altronde la sede di Serra Marina è stata aperta proprio come risposta alla tragedia della ex Felandina, come segnale forte contro un caporalato che nello Ionio lucano ha il volto feroce della criminalità organizzata.

Il Comune di Scanzano Jonico è ancora affidato ad un commissario prefettizio dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. E le organizzazioni criminali, da queste parti, continuano fragorosamente a testimoniare la propria presenza, ultimi in ordine di tempo gli attentati incendiari a due diversi stabilimenti balneari e ad una delle aziende agroalimentari della zona.

Dunque il progetto della Diocesi di Matera-Irsina, intensamente sostenuto dall’arcivescovo Antonio Giuseppe Caiazzo, intende sottrarre molti migranti al lavoro nero attraverso la produzione di vino destinato alle parrocchie del Paese, quello usato quotidianamente dai sacerdoti durante la celebrazione eucaristica. Una sfida di dignità, si è detto, in quel territorio dove al di là della mano pesantissima dei clan, tutta la grande esperienza agroalimentare ha dentro l’emergenza dell’illegalità. I ghetti (chiamiamoli col loro nome) sono ancora ben presenti nell’arco jonico, nei numerosi capannoni dismessi che avrebbero dovuto ospitare aziende, milioni e milioni di fondi pubblici scomparsi nel nulla e fabbriche mai entrate in produzione.

Intanto la manodopera a basso costo è tuttora nelle mani dei caporali. E gli stessi caporali hanno consumato il salto di qualità: accade ad esempio per le braccianti dell’Est smistate da finte agenzie interinali gestite da cittadini rumeni o bulgari. La ricca agricoltura lucana ha in seno violenza e illegalità, degrado e abuso. L’impegno delle istituzioni attraverso l’istituzione di Tavoli non ha ancora prodotto risultati. La Chiesa, la Caritas, le cooperative sociali, il volontariato provano a mettere un argine disinnescando la bomba sociale che di stagione in stagione rischia di esplodere, come nel 2019 nel misero sito dell’ex Felandina. E la produzione di vino rilancia oltretutto la potente simbologia biblica: nell'Antico Testamento il vino è sinonimo dei doni provenienti da Dio, la bevanda della vita che sa donare consolazione e gioia e sa curare la sofferenza dell'uomo.

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