Caos sulle strade

Blocco tir, la testimonianza: «È solo la punta dell'iceberg»

Luigia Ierace

L'intervista a Massimo Cirigliano, di Agorà 2.0, associazione impegnata nel settore dei trasporti

La protesta degli autotrasportatori non è che la punta dell’iceberg di una serie di problemi irrisolti che ciclicamente, in un Paese dove il 95% delle merci viaggia su gomma, sfociano in mobilitazioni con tir, furgoni, trattori e mezzi pesanti che si snodano lungo la Penisola. Ne parliamo con Massimo Cirigliano, di Agorà 2.0, associazione impegnata nel settore dei trasporti.

Ma ora è arrivata la guerra in Ucraina ad aggravare una situazione già al collasso portando al fermo dell’autotrasporto.

«Fino a qualche anno fa effettuavamo trasporti proprio verso l’Ucrania, partivamo da Tito per Dnipropetrovs’k, ora saremmo in difficoltà. Le proteste degli autotrasportatori sono precedenti alla guerra. Negli anni si sono cercati sempre rimedi tamponi e non vere soluzioni alle molteplici criticità del settore. E questo grazie anche alla flessibilità e capacità delle imprese, rappresentate da seri professionisti, riuscite sempre ad assorbire tutte le storture del sistema. Con il caro energia e l’impennata anche del costo del gasolio, si era aperto un tavolo di trattativa al ministero tra alcune associazioni di categoria ed il sottosegretario Teresa Bellanova, che ha la delega ai trasporti. Ma i primi incontri si sono conclusi con un nulla di fatto».

Da qui sono iniziate le mobilitazioni a macchia di leopardo in tutto il meridione, anche in Puglia e Basilicata.

«Per quanto sacrosanto e giustificato il diritto di manifestare, però, con grande rammarico devo segnalare in qualche caso i modi con cui si sono svolte, sono molto discutibili. Agitazioni spontanee senza essere state indette da nessuna associazione di categoria impegnata nelle trattative con il governo. Poi in molti casi sono stati usati modi anche al limite della legalità per bloccare altri colleghi camionisti come loro. In molti avevano parcheggiato un camion per protestare, però con gli altri camion comunque lavoravano. Insomma talvolta ci si è mossi in maniera disorganizzata. Certo vanno compresi perché sono persone chiamati a fare grandi sacrifici e si vedono alla disperazione».

Ma le trattative con governo sono proseguite.

«Si è trovato qualche punto di incontro con lo stanziamento di un po’ di risorse. Provvedimenti che, a mio parere, non servono a risolvere i problemi ma a rimandarli come sempre».

Eppure secondo lei una ricetta ci sarebbe?

«Si e anche semplice. Basta individuare dei costi minimi di sicurezza oltre i quali non si possa scendere. Sarebbe una soluzione a costo zero per il governo. L’unico impegno per il governo sarebbe quello di creare degli automatismi che obblighino la committenza a non poter eludere questi parametri. Perché quello che accade oggi è che l’autotrasporto subisce la superiorità contrattuale dei clienti che impongono i prezzi dei trasporti».

Caro energia, quindi che si somma ad altri problemi, come quello della carenza di autisti.

«Già dagli anni Novanta del secolo scorso se ne parla di carenza di autisti. In Italia, i problemi sono cominciati da quando sempre meno italiani hanno mostrato interessati a questo lavoro. Questo è un lavoro, che negli anni passati, veniva svolto da tutti quei ragazzi che avevano una grande passione per i camion. Poi si è cominciato ad assistere a un nuovo fenomeno, che sempre più persone che non riuscivano a trovare altri impieghi ma che avevano bisogno di una sicurezza economica, ripiegavano sulla guida dei camion. Per fortuna sono cominciati ad arrivare in soccorso conducenti provenienti da paesi dell’Est Europa».

E questo ha portato anche molte aziende italiane a delocalizzare.

«Una delocalizzazione selvaggia di molte imprese di trasporto con la conseguenza che in Europa circolano troppi veicoli, sicuramente più della domanda di trasporto, con il paradosso che le stesse imprese dei paesi dell’Est hanno bisogno di assumere manodopera straniera».

Una materia così complessa sulla quale non si è intervenuti in maniera adeguata anche nel nostro Paese.

«Un aspetto cruciale che ha portato sempre più alla disaffezione per questo lavoro, che ne è certamente la sua peculiarità: è un lavoro che richiede innanzitutto un’adeguata professionalità e per conseguirla serve un ingente esborso economico iniziale per il conseguimento delle patenti e delle abilitazioni. Un lavoro che richiede dedizione e sacrifici e costringe a stare lontano da casa sacrificando anche gli affetti».

Quali sono le problematiche più gravi?

«Le aziende di trasporto e di conseguenza gli autisti sono costrette a subire tutte le inefficienze: dalla committenza alle infrastrutture. È un lavoro dove sono di più i tempi di attesa che quelli di effettivo lavoro. E per questo i conducenti hanno sempre più consapevolezza che sarebbe opportuno rendere più gradevoli i tempi di attesa per le pause di riposo che impone il regolamento».

E questo vuol dire cospicui investimenti?

«Sono necessari per creare aree di sosta ad hoc per i conducenti professionali dotati di tutti i servizi di cui un autotrasportatore può avere bisogno, compresi ambulatori medici e attrezzature per praticare attività fisica. È utopia? Secondo me no, perché si potrebbe fare anche dirottando fondi europei che fino ad ora sono serviti per la delocalizzione o altre forme di incentivazione che non hanno portato risultati utili al mondo dell’autotrasporto».

Altro tema che preoccupa gli autotrasportatori riguarda gli organi di controllo sulle strade.

«Chiediamo che abbiano un atteggiamento più indulgente volto alla prevenzione delle infrazioni e non di carattere repressivo come adesso. Non è possibile che i camion siano visti come un bancomat».

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