BARI - Un francobollo celebrativo, emesso dal Mise e tirato in 500mila esemplari, per festeggiare i 130 anni dalla fondazione dell’azienda Divella. Una storia lunga, lunghissima che tocca tre secoli e attraversa due guerre mondiali, il boom, le crisi economiche, fino all’odierna pandemia. Di questa gloriosa epopea pugliese proviamo a riannodare i fili con Francesco Divella, classe 1944, alla guida dell’impresa di famiglia con il cugino Enzo.
Divella, da dove iniziamo?
«Inizierei dall’orgoglio. Perché questo francobollo è un riconoscimento ad una azienda del Sud nata con un mulino nel 1890 e da allora sempre presente sul territorio. Quella mia e di mio cugino è la terza generazione, ma la quarta è già pronta».
Come è cambiata la produzione in oltre un secolo?
«Alla fine dell’Ottocento la pasta si faceva in casa, non esisteva quella industriale e la produzione si concentrava sulle farine. Poi le cose iniziano a cambiare negli anni Venti».
E il picco quando arriva?
«La produzione inizia a decollare negli anni Settanta per poi toccare il suo picco vent’anni fa, con l’avvio del Terzo Millennio. Consideri che io e mio cugino siamo entrati in azienda nel 1963 e da allora abbiamo davvero visto il mondo trasformarsi e le persone avvicendarsi. Di alcuni collaboratori, e ne abbiamo 500, tra interni ed esterni, ho conosciuto il padre e il nonno, anche loro impiegati qui. E mi lasci dire un’altra cosa».
Prego.
«Nessuno ha mai fatto nemmeno un’ora di cassa integrazione. A proposito di orgoglio».
La globalizzazione è stata l’ultima grande rivoluzione. Un’opportunità o un problema?
«Guardi, la pasta è uno dei pochi prodotti alimentari diventati globali. Noi esportiamo ovunque, dal Canada alla Nuova Zelanda. Aspettiamo la Cina. Se solo tutti i cinesi consumassero un kg di pasta a testa ogni anno....».
Intanto qui mangiamo sushi...
«Ma in Giappone la cucina italiana va forte. Piace moltissimo. Lo scambio è equo».
Ma qual è il segreto della vostra longevità?
«Negli anni d’oro non abbiamo diviso gli utili fra i soci ma li abbiamo lasciati in azienda. Forse perfino esagerando. Ma siamo ancora qui e in salute».
E la pandemia?
«Come tutte le aziende che producono beni di prima necessità non abbiamo avvertito la crisi. Anzi, la gente ha iniziato a fare pane e pizza in casa. Mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo».
Cioè?
«Cioè gli amici mi chiamavano per chiedermi 10 kg di farina, ormai introvabile. Cose così succedevano a mio nonno ai tempi della guerra».
I problemi però restano. I porti, ad esempio.
«Per arrivare in Australia la merce fa un giro assurdo e ci mette 50 giorni. I container vanno sulle navette transhipment per la Grecia e solo da lì partono per il viaggio. Prima a Taranto c’era la Evergreen che ci aveva dato sollievo ma poi è scappata al Pireo».
Altre criticità?
«Sempre le distanze. Il primo Paese importatore di pasta italiana è la Germania. È chiaro che siamo sfavoriti rispetto ai nostri concorrenti del Nord. E infatti proveremo ad accedere ai contributi europei per colmare il divario».
E il prezzo del grano?
«Abbiamo avuto un giugno piovoso e questo, oltre a rallentare la mietitura, farà alzare i prezzi. Gli agricoltori saranno contenti. Spero che anche la qualità sia alta. Lo scopriremo tra 15 giorni».
Poi c’è tutto il resto: burocrazia, tasse, lungaggini. Lei è stato in politica, perché non riusciamo a risolvere questi problemi?
«Bella domanda, risposta difficile. Quasi impossibile. Mi lasci dire solo una cosa: il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, mi sembra uno agguerrito. Confidiamo in lui, può fare molto bene».