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I 130 anni della Divella: «Una storia d’orgoglio». E arriva anche il francobollo celebrativo

 
Leonardo Petrocelli

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Leonardo Petrocelli

I 130 anni della Divella «Una storia d’orgoglio»

Emesso dal ministero dello Sviluppo

Sabato 20 Giugno 2020, 13:08

BARI - Un francobollo celebrativo, emesso dal Mise e tirato in 500mila esemplari, per festeggiare i 130 anni dalla fondazione dell’azienda Divella. Una storia lunga, lunghissima che tocca tre secoli e attraversa due guerre mondiali, il boom, le crisi economiche, fino all’odierna pandemia. Di questa gloriosa epopea pugliese proviamo a riannodare i fili con Francesco Divella, classe 1944, alla guida dell’impresa di famiglia con il cugino Enzo.

Divella, da dove iniziamo?

«Inizierei dall’orgoglio. Perché questo francobollo è un riconoscimento ad una azienda del Sud nata con un mulino nel 1890 e da allora sempre presente sul territorio. Quella mia e di mio cugino è la terza generazione, ma la quarta è già pronta».

Come è cambiata la produzione in oltre un secolo?

«Alla fine dell’Ottocento la pasta si faceva in casa, non esisteva quella industriale e la produzione si concentrava sulle farine. Poi le cose iniziano a cambiare negli anni Venti».

E il picco quando arriva?

«La produzione inizia a decollare negli anni Settanta per poi toccare il suo picco vent’anni fa, con l’avvio del Terzo Millennio. Consideri che io e mio cugino siamo entrati in azienda nel 1963 e da allora abbiamo davvero visto il mondo trasformarsi e le persone avvicendarsi. Di alcuni collaboratori, e ne abbiamo 500, tra interni ed esterni, ho conosciuto il padre e il nonno, anche loro impiegati qui. E mi lasci dire un’altra cosa».

Prego.

«Nessuno ha mai fatto nemmeno un’ora di cassa integrazione. A proposito di orgoglio».

La globalizzazione è stata l’ultima grande rivoluzione. Un’opportunità o un problema?

«Guardi, la pasta è uno dei pochi prodotti alimentari diventati globali. Noi esportiamo ovunque, dal Canada alla Nuova Zelanda. Aspettiamo la Cina. Se solo tutti i cinesi consumassero un kg di pasta a testa ogni anno....».

Intanto qui mangiamo sushi...

«Ma in Giappone la cucina italiana va forte. Piace moltissimo. Lo scambio è equo».

Ma qual è il segreto della vostra longevità?

«Negli anni d’oro non abbiamo diviso gli utili fra i soci ma li abbiamo lasciati in azienda. Forse perfino esagerando. Ma siamo ancora qui e in salute».

E la pandemia?

«Come tutte le aziende che producono beni di prima necessità non abbiamo avvertito la crisi. Anzi, la gente ha iniziato a fare pane e pizza in casa. Mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo».

Cioè?

«Cioè gli amici mi chiamavano per chiedermi 10 kg di farina, ormai introvabile. Cose così succedevano a mio nonno ai tempi della guerra».

I problemi però restano. I porti, ad esempio.

«Per arrivare in Australia la merce fa un giro assurdo e ci mette 50 giorni. I container vanno sulle navette transhipment per la Grecia e solo da lì partono per il viaggio. Prima a Taranto c’era la Evergreen che ci aveva dato sollievo ma poi è scappata al Pireo».

Altre criticità?

«Sempre le distanze. Il primo Paese importatore di pasta italiana è la Germania. È chiaro che siamo sfavoriti rispetto ai nostri concorrenti del Nord. E infatti proveremo ad accedere ai contributi europei per colmare il divario».

E il prezzo del grano?

«Abbiamo avuto un giugno piovoso e questo, oltre a rallentare la mietitura, farà alzare i prezzi. Gli agricoltori saranno contenti. Spero che anche la qualità sia alta. Lo scopriremo tra 15 giorni».

Poi c’è tutto il resto: burocrazia, tasse, lungaggini. Lei è stato in politica, perché non riusciamo a risolvere questi problemi?

«Bella domanda, risposta difficile. Quasi impossibile. Mi lasci dire solo una cosa: il nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, mi sembra uno agguerrito. Confidiamo in lui, può fare molto bene».

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