la riflessione

Dal compromesso storico al campo largo: l’evaporazione dell’ideologia nelle alleanze

Domenico Santoro

Le dinamiche di governo in Puglia sono spesso considerate esemplificative di un laboratorio riuscito del cosiddetto campo largo: leadership chiara accompagnata da una solida alleanza strutturale tra Pd e M5S

Le più recenti consultazioni elettorali regionali hanno attestato la solidità degli attuali equilibri coalizionali e la tendenza alla loro cristallizzazione in vista delle prossime elezioni politiche. Tuttavia, limitarsi alla lettura dei risultati equivale a eludere la questione centrale, quella che dovrebbe interrogare quanti abbiano a cuore la qualità della democrazia: da dove origina oggi il consenso politico in Italia? Dalla forza di una visione o dall’efficacia di una mera architettura elettorale? Le dinamiche di governo in Puglia e Campania sono spesso considerate esemplificative di un laboratorio riuscito del cosiddetto campo largo: leadership chiara accompagnata da una solida alleanza strutturale tra Pd e M5S. Resta, nondimeno, irrisolto un interrogativo, che raramente viene posto con la necessaria chiarezza: quel modello risulta realmente esportabile su scala nazionale, in un sistema dominato da una leadership forte e accentrata come quella di Giorgia Meloni? Il quadro che emerge appare profondamente asimmetrico. Il centrodestra si configura oggi come una coalizione esplicitamente a trazione destra, dotata di un’identità politica riconoscibile e di una linea di governo coerente. Il centrosinistra, viceversa, si presenta quale contenitore ampio e indeterminato, ove le identità storiche si dissolvono progressivamente in nome di una presunta unità morale più che politica.

In questo processo ha rivestito un ruolo determinante il Movimento 5 Stelle, soggetto privo di radicamento in una delle grandi tradizioni politiche della Repubblica. Il suo impatto sul sistema non è stato soltanto competitivo, ma profondamente solvente: non si è limitato a sottrarre consensi, bensì ha eroso identità, destrutturando gli equilibri esistenti. All’interno di questo quadro, in particolare nella sinistra, la politica ha progressivamente smarrito la centralità della questione sociale, rifugiandosi quasi esclusivamente nell’ambito dei diritti civili. Non si tratta di una svolta improvvisa, ma dell’esito di una crisi culturale mai del tutto elaborata, le cui radici affondano nel trauma non risolto del compromesso storico.

Il compromesso storico non costituì un espediente tattico né un’alleanza difensiva. Fu una strategia di sistema, situata in un preciso contesto storico: l’esigenza di mettere in sicurezza la Repubblica, oltrepassando le barriere del dopoguerra e inglobando le masse comuniste nel perimetro costituzionale. Non era un progetto pensato per ottenere la vittoria elettorale, bensì per garantire la coesione nazionale. Prima lo Stato, poi l’alternanza.

Quel percorso si interruppe bruscamente per ragioni note, ma tuttora rappresenta un esempio di politica di alto livello, resa possibile da culture politiche forti, antagoniste ma responsabili, capaci di visione e mediazione. Le dinamiche successive si sono mosse in senso opposto. Il contratto di governo fra Lega e Movimento 5 Stelle, sottoscritto nel 2018, rappresenta uno spartiacque simbolico e sostanziale. Non una sintesi politica, ma una mera giustapposizione di punti. Non a caso si parlò di contratto e non di programma: un lessico mutuato dal diritto privato e dal management, che assimila la politica a un elenco negoziale e regola una coabitazione priva di una direzione definita.

In quella fase, il Movimento 5 Stelle operò una silenziosa ma incisiva erosione delle identità politiche altrui. La Lega, allora in marcata ascesa e fortemente radicata sul territorio, fu costretta a un’ambiguità strutturale, sostenibile solo fintantoché la leadership riuscì a personalizzare il conflitto. Esauritasi quella centralità, il partito è entrato in crisi.

Oggi, con il campo largo, lo schema si ripropone in forma più sofisticata. Il Pd non viene sconfitto, ma rischia la diluizione. La sua tradizione riformista e istituzionale si disperde in una cornice morale. Il campo largo non nasce da una visione di Paese, bensì dalla preoccupazione elettorale di contenere l’avanzata delle destre. Non chiarisce chi e come debba decidere, rinviando sistematicamente le questioni decisive: politica estera, assetto istituzionale, modello di sviluppo. Si tratta di un’alleanza ideata per vincere, non necessariamente per governare. Anche la questione della leadership rimane sospesa, in un fragile equilibrio tra Elly Schlein e un Giuseppe Conte tutt’altro che marginale.

È proprio sui nodi procrastinati che affiorano le principali fragilità. In particolare, la politica estera rappresenta una linea di frattura cruciale. Le incertezze e le divergenze sulla crisi ucraina e sulla collocazione internazionale dell’Italia evidenziano la mancanza di una visione condivisa all’interno del campo largo.

Sarebbe tuttavia erroneo attribuire questa problematica esclusivamente al centrosinistra. Anche nel centrodestra permane una divisione latente sulle questioni internazionali, come attesta la distanza tra l’atlantismo di Giorgia Meloni e la diversa postura diplomatica di Matteo Salvini nei confronti della Russia. Una divergenza oggi gestita dalla responsabilità di governo, ma non ancora risolta sotto il profilo politico e culturale.

Paradossalmente, con l’affermazione di Giorgia Meloni si assiste a un ritorno di una politica più strutturata, sebbene fortemente ancorata alla leadership personale. Il recupero della dimensione partitica, il ritorno sui grandi nodi dello Stato – forma di governo, giustizia, assetto territoriale, collocazione internazionale – esprimono un significativo cambio di passo.

In definitiva, leadership e alleanze possono essere funzionali a vincere le elezioni, ma non suppliscono all’assenza di una cultura politica. Senza identità, visione e scelte nette la politica tende a evaporare.

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