L'analisi
Sotto nessun cielo la vita è facile per la libertà di opinione
L'attacco, rapido e violentissimo, filmato, ma non evitato, nonostante la massiccia presenza di forze dell’ordine, ha consentito ad un gruppo di delinquenti organizzati di snaturare un momento di democrazia
Come è possibile che nel giorno dello sciopero generale contro la politica economica del governo, che ha avuto un’ampia adesione di tante categorie sociali in tutta Italia, anche delle associazioni della stampa e che ha comportato un costo economico per chi vi ha partecipato, si sia arrivati ai fatti di Torino contro la redazione de La Stampa? L’attacco, rapido e violentissimo, filmato, ma non evitato, nonostante la massiccia presenza di forze dell’ordine, ha consentito ad un gruppo di delinquenti organizzati di snaturare un momento di democrazia.
Non solo. È stato usato un crimine smisurato, quale il genocidio dei palestinesi, tuttora in corso nell’ipocrisia del cosiddetto piano di pace di Trump, per commettere un altro crimine nel segno della violenza. Alle condanne, subito giunte dalle istituzioni, anche dal governo e senza eccezioni dalla società civile, dovrà allora sommarsi la riflessione nel confronto delle opinioni, non la polemica, subito esplosa. Non contano le posizioni di questo o quella, espresse a caldo, non ci aiutano da capire. Le domande sono diverse. Dal livello di impunità, che viene in apparenza combattuto con norme di ordine pubblico sempre più restrittive (rispetto alle quali bisognerebbe anche chiedersi vantaggio di chi?) all’espressione del diritto di critica e dunque di opinione, mentre aumentano il senso di paura e le minacce in un paese che non sceglie, né chiarisce la sua collocazione all’interno della comunità internazionale.
Le fasce d’ombra e le maglie dell’illegalità si sono allargate invece di restringersi - come documentano i dati - mentre i cittadini si sentono più fragili. È stato straordinario il ruolo dell’opinione pubblica, che dinanzi ai silenzi e alle complicità dei governi di molti Paesi europei, tra i quali il nostro, hanno mobilitato gli equipaggi di terra e di mare, dalle piazze di tante città alla «flottilla», in un gesto concreto di soccorso al popolo palestinese. Un gesto nella legalità, espresso pacificamente, che è riuscito a smuovere l’inerzia politica, senza tuttavia fermare il genocidio.
Non sono finiti i silenzi, né le complicità, infatti, mentre per quel diritto di critica sembra invece arrivato il conto. Dopo i fatti di Torino i pro-pal vengono additati come «squadristi». Si è sporcata, l’immagine pulita, che giovani e meno giovani insieme, sfilando tra cartelli e bandiere, hanno consegnato al nostro Paese e di cui andare fieri. Le inchieste in corso forse chiariranno la dinamica dei fatti e le responsabilità, ma perché dopo e non prima? Anche a Bologna, in occasione della partita di calcio, che vedeva in campo una squadra israeliana, la violenza si poteva evitare. Nonostante le richieste pressanti di associazioni e gruppi, anche del sindaco, non si è fatto. Chi può ragionevolmente immaginare che la battaglia contro la violenza, usi le stesse armi? Se non mancheranno mai le teste calde, può vincere la forza dei numeri e l’impegno a contenere i rischi.
Grottesca poi la motivazione di colpire i giornalisti di un quotidiano autorevole, che esprime firme di pregio e analisi approfondite, devastando - quasi fosse uno tsunami - un luogo di lavoro, per denunciare le connivenze della stampa con i cosiddetti poteri forti. Sotto nessun cielo, la vita è facile per la libertà di opinione, la nostra si è indebolita, ma dobbiamo tenercela stretta.
Negli Stati Uniti di Trump si è arrivati al licenziamento degli opinionisti, alla chiusura di programmi TV e alle minacce ai giornali. L’esempio fa scuola? Viviamo un tempo di aggressività, che però non esaurisce le spiegazioni. A chi giova l’instabilità?- bisogna piuttosto chiedersi. Non si interviene alla radice, nella formazione, nella cura. Si arriva al contrario a teorizzare che sia inutile, come nel caso della violenza di genere, lasciando da parte le scuole e nell’inerzia il diritto, mentre il caos dilaga. L’instabilità che porta all’incertezza e che moltiplica la paura, non è tuttavia una scelta dei singoli. Siamo in crisi d’ossigeno dinanzi alla propaganda che nasconde i problemi, lasciandoli irrisolti, in un Paese più povero, pieno di diseguaglianze e sfiduciato nel futuro. Sembra di essere ripiombati nello Stato-Leviatano - descritto dal filosofo inglese Tomhas Hobbes nella sua opera più famosa, prima dell’avvento delle democrazie. Hobbes sosteneva che lo Stato-mostro (il leviatano era una figura mitologica orrenda, con le sembianze di un serpente) per difendere sé stesso, le proprie prerogative e la struttura del potere disattendeva i diritti, che pure proclamava. Era l’epoca dei nazionalismi, sordi ai principi. Siamo arrivati al sovranismo, che fa rima con populismo e che alimenta il fondamentalismo.
Non basta. Si va avanti con gli ossimori, vale a dire, i significati contrari, che si elidono a vicenda. Per esempio, rinunciando agli investimenti utili alla società, mentre dilagano come non è mai accaduto in passato le spese militari, di fronte alle quali l’opinione pubblica è smarrita, si parla sempre più spesso del rischio guerra. I conflitti sono poco distanti, ma si sta parlando di guerra a casa nostra. Guarda caso, ancora una volta di mezzo c’è la destabilizzazione, elevata però da Trump a livello mondiale. L’ultima perla e la «leva volontaria». Il servizio militare di leva, che significa «coscrizione obbligatoria». Allora, volontaria che vuol dire? Da noi la leva militare è durata quasi un secolo e mezzo, poi Berlusconi la cancellò. Forse non tutti sanno che c’è qualcosa di simile in Birmania, sotto la dittatura dei generali. In quel disgraziato Paese, dove è negata ogni libertà, esiste da decenni «il servizio militare volontario obbligatorio». Chi si sottrae, finisce nei campi di lavoro forzato. È capitato di ascoltarlo direttamente da chi scrive nella testimonianza drammatica di un esponente della resistenza clandestina, affatto avaro di dettagli. È un ossimoro anche questo, anzi, un paradosso. Eppure si sta tentando di farlo passare. Non a caso, si rimane indifferenti dinanzi alla poltiglia annunciata dei principi sanciti nella nostra costituzione, con le riforme in itinere in tema di giustizia e di equilibrio dei poteri dello stato. Anche se si può sempre fare di meglio, sia nella denuncia, sia nel racconto, sia nell’investigazione, a questo serve la stampa. A parlarne e a farlo per tempo, dando voce all’alternativa, che se manca, va costruita.