L'analisi
Cop30, Gaza, Venezuela: se l’Europa è viva ora deve battere un colpo
Gli ultimi della terra intanto, esercitano fino infondo il proprio ruolo, disposti a pagarne il prezzo
«Fast and Furious», la fortunata serie cinematografica americana che ha inaugurato il XXI secolo, basata sull’azione, sugli effetti speciali esasperati, sui muscoli poderosi dei suoi protagonisti, oltre ogni limite, spesso oltre la legge, in assenza di contenuti e banale nei sentimenti sembra il manifesto dell’era Trump e del vortice impazzito da lui creato in meno di un anno, con effetti a catena sulla politica mondiale, ma anche in ambito nazionale, che si riflettono nei toni aggressivi e nei titoli forzati sui media, mentre l’umanità arranca in un presente ogni giorno più difficile e senza punti di riferimento. Dal cinema, dove ti hanno trascinato i nipoti, puoi uscire prima che il film sia finito, già che non cattura la trama, senza principio o epilogo, nell’attesa di un nuovo sconclusionato episodio, ma nelle vie vuote della sera di una fredda domenica d’autunno, come si affronta quel senso di smarrimento, che diventa fisico dinanzi ad una cronaca reale frammentata, dove si appiattisce l’interesse sociale nel silenzio della politica?
Sullo schermo del computer, che bypassa la TV, vengono in soccorso le immagini dei popoli del Sud del mondo, offerte in un diluvio di colori, di suoni e di sorrisi, a margine della Conferenza di Belém, il porto dell’Amazzonia, sulla scena fino al prossimo venerdì per il vertice brasiliano, Cop30. Migliaia e migliaia di persone, nei loro abiti tradizionali, però in molti con una laurea in tasca, rimasti i soli - pare - a scendere in piazza per i diritti della Terra, dove vivono e vorrebbero continuare a vivere. Non importa se la trentesima conferenza sul clima, che dopo anni di divieti consente libere manifestazioni, segnerà - secondo l’analisi del vertice - risultati modesti e impegni generici sul controllo delle emissioni di gas serra e sull’incremento dei combustibili fossili, al pari delle precedenti edizioni.
Gli ultimi della terra intanto, esercitano fino in fondo il proprio ruolo, disposti a pagarne il prezzo. La loro capacità attrattiva si esalta nella condivisione straordinaria di contatti registrati sui social, cui si somma il sostegno di associazioni governative e non governative, laiche e religiose, a cominciare dalla Chiesa cattolica, fino alla Green Religion, (buddisti, musulmani, indu) nel segno del valore etico e spirituale dell’ecologia. Si va dall’Asia (Asean-associazione degli Stati del SudEst asiatico), all’Africa (UA-Unione degli Stati africani, sottolineando che i dieci paesi più ricchi del continente muovono oramai oltre 2 mila miliardi di dollari l’anno), rigenerando finalmente la coscienza ambientalista occidentale, lasciata deliberatamente al torpore, senza narrazioni, simboli e risorse. Torna la forte motivazione dei giovani.
Senza forzare il paragone, il concetto del diritto a vivere e continuare a vivere sulla propria terra non può che essere lo stesso per il popolo palestinese. «No other Land», nessun’altra terra, con la regia condivisa di un collettivo israeliano palestinese, di cui i nomi di spicco sono l’attivista Basel Andra e il giornalista Yuval Abraham, lo scorso anno vincevano il Leone d’oro a Berlino e l’Oscar per il miglior documentario. Non potevano certo fermare la guerra, ma hanno commosso e scosso le opinioni pubbliche, che hanno inciso sulla decisione di fermarla.
Due anni di conflitto, mirato alla distruzione totale della Striscia di Gaza, decisa dal governo israeliano, nella genericità del piano di pace in venti punti del presidente Trump (ne sono stati realizzati due, peraltro fondamentali: lo stop al genocidio e il rilascio di tutti gli ostaggi del pogrom del 7 ottobre di Hamas- vivi e morti -e di molti prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane senza diritti umani e senza processo) rischiano ora di cancellare definitivamente il rapporto naturale dei palestinesi con la propria terra. Il paradosso vuole, che sia Mosca a mettere i bastoni fra le ruote della fragile tregua di Gaza (in apparenza affiancando i palestinesi) oltre a fare altrettanto nello scenario a rischio guerra del Venezuela.
Andiamo con ordine. Al Palazzo di Vetro dell’ONU oggi si vota per implementare il piano Trump, con un’amministrazione transitoria per la Striscia fino al 2027 e il corredo di aspetti non secondari: la deposizione delle armi di Hamas e la riduzione del territorio palestinese entro la Linea Gialla, al di là della quale è attendato l’esercito israeliano, che mantiene il controllo di oltre il cinquanta per cento della Striscia. Nelle previsioni, sarà favorevole il voto dei paesi che dovrebbero formare la coalizione di controllo sul terreno, ovvero Egitto, Azerbaijan, Qatar, Indonesia e (forse) Turchia. Invece? Putin a sorpresa ha presentato una sua bozza di risoluzione: non serve la smilitarizzazione di Hamas – è scritto nel documento- il limite della Linea Gialla non può modificare arbitrariamente i confini della Striscia e soprattutto l’ONU deve tutelare l’impegno dei due popoli, due stati, garantendo il ruolo palestinese nella fase transitoria. Si riavvolge il nastro e si ricomincia, riprenderà il massacro?
Intanto, nel silenzio assordante seguito alla tregua, finalmente, se ne parla e ci si trova costretti ad annotare le lacune e le contraddizioni del piano americano, sepolto dalla retorica. Chi segue da vicino la questione, immagina che non dovrebbe verificarsi un ribaltamento delle previsioni. La Russia che nel Consiglio di sicurezza ha diritto di veto, potrebbe limitarsi all’astensione e farebbe altrettanto la Cina. Putin ha lanciato tuttavia un segnale fortissimo, che ribadisce per il Venezuela: il futuro non è nelle mani di Trump. Lui coltiva i propri interessi, riempie il mondo di armi, usa gli occhiali sbagliati per disegnare a proprio piacimento le nuove mappe di influenza. Il Cremlino, che sul fronte ucraino rifiuta per il momento la pace, non si addomestica, né rinuncia al suo ruolo di protagonista, peraltro discutibile. Ci piacerebbe che il monito valesse anche per l’Europa, oramai ruota di scorta dell’amministrazione americana. La pace transita dalla diplomazia, dal dialogo, dal rispetto degli avversari e dagli accordi, non dagli investimenti nella guerra. La maxi truffa che sta scuotendo il governo di Zelensky non tocca le alleanze, sulle quali si polemizza tirando la coperta dal lato che serve nei singoli paesi, tuttavia chiede con urgenza una verifica a Bruxelles. E gli europei, che tanta parte hanno avuto nella storia del Sudamerica, possono continuare a rimanere inerti dinanzi al rischio-guerra che intanto minaccia il Venezuela? Guardando al possente dispiegamento militare nelle acque del Mar dei Caraibi, sembrerebbe proprio nelle intenzioni del tycoon, che intanto ha dato mano libera alla Cia e che cerca l’ennesima occasione per spostare l’attenzione dagli scandali e dai problemi economici e sociali interni, oramai in crescita abnorme per abbondanza di lievito. Anche gli americani però cominciano ad accorgersene, senza evocare Zohran, il sindaco socialista, che ha stravinto a New York o le neo governatrici democratiche in Virginia, la Spanberger e in New Jersey, la Sherrill, protagoniste entrambe – si augurano in parecchi- di un principio. «La terra girò per renderci più vicini», scriveva il più grande poeta venezuelano del Novecento, Eugenio Montejo. Un verso semplice. Molto semplice. Facciamolo girare.