L'analisi
Da Taranto a Bruxelles la vera sfida dell’acciaio: ora si gioca in Europa
Vai per grazia e ricevi disgrazia. È la sorte toccata alle organizzazioni sindacali metalmeccaniche nell’incontro con il governo a Palazzo Chigi, lasciato anticipatamente e con amarezza
Vai per grazia e ricevi disgrazia. È la sorte toccata alle organizzazioni sindacali metalmeccaniche nell’incontro con il governo a Palazzo Chigi, lasciato anticipatamente e con amarezza. Ma non finisce qui: oggi prosegue il confronto tra governo e commissari di Acciaierie d’Italia, questa volta senza i sindacati, per approfondire - chissà perché - la situazione di crisi del gruppo siderurgico, come se non si conoscesse da tempo il dramma tarantino. La cassa integrazione salirà da 4.500 a 5.700 unità, con integrazione del reddito fino a dicembre, per raggiungere quota 6.000 a gennaio 2026. Una cifra da capogiro, che si aggiunge a un bilancio già in profondo rosso.
In questo scenario, dal 1° gennaio gli impianti vedranno la chiusura delle cokerie per i necessari interventi di decarbonizzazione. Attualmente i lavoratori in organico sono circa 8.000: 1.700 quadri, 800 dirigenti e 5.300 operai. Lo stabilimento siderurgico a ciclo integrale più grande d’Europa ha in funzione soltanto l’Altoforno 4, spesso soggetto a manutenzione, come in questa fase. Il ministro del Mimit, Adolfo Urso, si è dovuto arrendere di fronte a una crisi ormai endemica dell’acciaio pubblico: non ha più carte da giocare. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, ha espresso la propria delusione per la drammatica realtà tarantina: «Temo che siamo ai titoli di coda». E non ha tutti i torti nel dire che siamo a un punto di non ritorno. Le sue parole hanno suscitato scandalo nel mondo sindacale solo perché ha detto la verità - spesso abituato a guardare il dito e non la luna.
Gozzi ha fatto bene, invece, a non addolcire la pillola come qualcuno avrebbe voluto per renderla meno amara. A ragion veduta, conduce da tempo una battaglia contro il Green Deal europeo, la cui politica ambientale fondamentalista ha messo in crisi l’acciaio e l’automotive. Non a caso, Ursula von der Leyen ha cambiato postura, puntando sul rilancio del manifatturiero, in primis la siderurgia. Prima di lei, Giorgia Meloni aveva già sollevato il problema di un Green Deal portatore di crisi più che di sviluppo.
Diciamolo chiaramente: Urso è limitato nella sua iniziativa di governo. Ciò che ha fatto finora è già molto, ma non basta. Sul tavolo del ministero ci sono le proposte dei Fondi americani Bedrock e Flacks Group, che non si smentiscono mai quando si tratta di rilevare aziende in crisi: per principio non offrono un soldo bucato per gli asset, riconoscendo solo il valore di magazzino. Sembrano più specchietti per le allodole, utili a mascherare un pugno di mosche. Eppure Urso non manca di stupire: ha ribadito che è in corso una trattativa segreta con un gruppo siderurgico straniero. Il segreto di Pulcinella: Qatar Steel, piccolo gruppo ma con grande liquidità finanziaria. Tuttavia, fonti qatarine riferiscono che si naviga nella nebbia. Il caso dell’acciaio, ormai, va oltre Roma e arriva a Bruxelles. Dopo due bandi di gara andati a vuoto, non ci sono più scuse.
In verità, molti hanno pasticciato nella gestione della crisi siderurgica tarantina. Dopo i privati Riva, le principali responsabilità ricadono sui governi di ogni colore politico, incapaci di elaborare una politica industriale coerente, dimenticando che la siderurgia è un settore strategico per il sistema Paese. La magistratura è intervenuta come se lo stabilimento fosse un «assassino» e non un’infrastruttura industriale al servizio dell’economia nazionale. È vero: l’inquinamento ha prodotto un problema sanitario grande quanto una casa - su questo nulla quaestio -, ma la vicenda non poteva essere scaricata solo sul management. I governi avrebbero dovuto investire sull’ambiente, sulla manutenzione e sulla riconversione ecologica. Vale la pena ricordare che, grazie all’impegno delle maestranze e dei commissari di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, era tornato in funzione anche l’Altoforno 1. Ma, come se una maledizione perseguitasse Taranto, un incendio lo mise fuori uso e la Procura ne dispose il sequestro, riducendo la produzione a circa due milioni di tonnellate, tutte a carico dell’Afo4.
Dal 2012 l’area a caldo resta formalmente sotto sequestro, con la sola «licenza» di poter produrre acciaio. Il generale Agosto promosse un dibattito sulla decarbonizzazione, e Urso - al fianco del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano - lasciò intendere che la soluzione fosse vicina, puntando su Baku Steel. L’obiettivo del gruppo azero era installare un rigassificatore off-shore, a qualche miglio dalla costa, per alimentare il processo DRI e produrre preridotto da destinare ai futuri forni elettrici. Ma l’amministrazione comunale di Taranto, guidata dal sindaco Piero Bitetti, si oppose con decisione, arrivando persino alle dimissioni (poi ritirate in fretta e furia).
Il danno, però, era fatto: Baku Steel voltò le spalle e non partecipò al nuovo bando. Quel progetto avrebbe avuto senso solo con l’ingresso della compagnia statale Socar (State Oil Company of Azerbaijan), che avrebbe fornito il gas necessario al polo DRI. Socar, interessata a entrare nel mercato energetico italiano, ha nel frattempo concluso con il gruppo Api l’acquisizione di oltre 4.500 distributori di carburante sparsi per la Penisola.
Detto questo, la questione dell’acciaio non è più solo italiana, ma europea. Se ne stanno occupando i vicepresidenti della Commissione Raffaele Fitto e Stéphane Séjourné. Nel frattempo, la Cina è sempre più vicina: la bolla immobiliare è esplosa e il Paese si ritrova con un surplus di acciaio che l’Europa importa a prezzi di dumping. Bruxelles intende reagire rilanciando la siderurgia europea per proteggere il mercato da una concorrenza sleale e devastante. In sintesi, la siderurgia italiana è oggi nelle mani dell’Europa, di Fitto e di Séjourné. Il vicepresidente italiano torna in campo per salvare non solo la siderurgia continentale, ma quella nazionale in particolare. Già in passato aveva trattato con Mittal per porre fine al braccio di ferro tra Acciaierie d’Italia e ArcelorMittal, ma poi sparì misteriosamente di scena, e si arrivò al commissariamento. Da oggi il futuro della siderurgia italiana dipende da ciò che l’Unione europea sarà capace di fare. La partita dell’acciaio non si gioca più solo a Taranto, ma nei corridoi di Bruxelles, dove si decide se l’Europa avrà ancora una politica industriale degna di questo nome o se lascerà campo libero ai colossi cinesi e americani.
La sorte dello stabilimento jonico è dunque una prova di sovranità europea: o l’Unione saprà difendere la propria acciaieria strategica, o si condannerà alla dipendenza industriale. In entrambi i casi, Taranto resterà la cartina di tornasole del coraggio politico di un intero continente.