il commento

Conservatori di sinistra contro riformisti di destra: è battaglia sulla giustizia

Domenico Santoro

Nel 2026 gli italiani torneranno alle urne per il quinto referendum costituzionale della Repubblica. Mai come oggi la posta in gioco riguarda il cuore dell’equilibrio tra i poteri dello Stato

Il prossimo anno gli italiani torneranno alle urne per il quinto referendum costituzionale della Repubblica. Ancora una volta si interviene sulla Carta, questa volta sul Titolo IV, che regola l’ordinamento della magistratura. Tuttavia, mai come oggi la posta in gioco riguarda il cuore dell’equilibrio tra i poteri dello Stato.

I precedenti, in verità, non incoraggiano. Berlusconi, nel 2006, vide naufragare la sua riforma su devolution e presidenzialismo; Renzi, dieci anni dopo, legò il proprio destino politico al referendum, uscendone travolto; i Cinque Stelle, nel 2020, riuscirono a ridurre il numero dei parlamentari, ma non seppero capitalizzare quella vittoria.

La riforma attuale è stata approvata con una maggioranza semplice, inferiore ai due terzi; per questa ragione gli italiani saranno chiamati a confermarla o respingerla tramite un referendum senza quorum: sarà sufficiente la maggioranza dei voti validi. Si tratta di una decisione che potrebbe riscrivere l’assetto costituzionale con il consenso di una minoranza dell’elettorato, in un Paese dove la disaffezione verso la politica è ormai cronica.

Il testo è chiaro: separazione netta delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, due Consigli Superiori della Magistratura distinti e autonomi, concorsi separati, carriere non interscambiabili, divieto di passaggio tra funzioni requirente e giudicante, riscrittura dell’articolo 105 della Costituzione. Non si tratta di una riforma tecnica, ma di una riforma identitaria che incide sulla concezione stessa del potere giudiziario nella Repubblica. Essa riflette un lungo e irrisolto nodo politico e culturale.

Nel dopoguerra, l’Italia ha respirato una cultura giuridica e intellettuale prevalentemente progressista, bilanciata dalla Democrazia Cristiana e dal ruolo della Chiesa. La destra, confinata ai margini, non ha avuto modo di elaborare una visione propria delle istituzioni, né di costruire una cultura politica pienamente accreditata sul piano democratico.

Così, per una parte significativa dell’opinione pubblica, la magistratura ha finito per incarnare la funzione «di garanzia» della Costituzione, ma anche, inevitabilmente, una sensibilità più affine alla sinistra. Quando poi sono venuti meno i partiti di massa, quei vecchi equilibri si sono spezzati e la giustizia è diventata terreno di scontro tra poteri.

La destra, spesso più bersaglio che interlocutrice della magistratura, ha maturato diffidenza e risentimento, leggendo in essa un potere non sempre neutrale. Con l’ascesa di Giorgia Meloni, questa diffidenza si è tradotta in progetto politico: la destra al governo si candida oggi come forza riformatrice in grado di affrontare una delle questioni più delicate dello Stato. La riforma della giustizia diventa, pertanto, il banco di prova della sua maturità istituzionale. Molti la interpretano come il completamento della missione interrotta di Berlusconi, ma l’analisi sarebbe riduttiva. Per la prima volta dal dopoguerra, la destra affronta il tema non più da posizione difensiva, ma da forza di governo che rivendica il diritto di ridisegnare l’equilibrio fra i poteri. Emerge così il paradosso: una destra riformista contro una sinistra conservatrice, che oggi difende un impianto istituzionale che essa stessa contribuì a innovare nel 1988, con il passaggio del processo penale da inquisitorio ad accusatorio.

Eppure, il dibattito continua a essere inquinato da slogan: la separazione delle carriere è diventata un totem ideologico più che una soluzione concreta. La magistratura è percepita, secondo le opinioni, come una casta autoreferenziale da ridimensionare o come l’ultimo baluardo democratico da difendere a ogni costo.

Tuttavia, la giustizia non può essere ridotta né a campo di vendetta né a terreno di resistenza ideologica, ma costituisce una funzione pubblica, presidio di equilibrio e garanzia per i cittadini. L’indipendenza della magistratura non rappresenta un privilegio, ma una condizione di libertà per tutti; tale indipendenza, tuttavia, impone misura, sobrietà e discrezione. Anni fa un magistrato paragonò il giudice a una figura sacerdotale: allora poteva apparire un eccesso, oggi si rivela una metafora efficace. In tempi in cui alcuni magistrati assumono il ruolo di personaggi pubblici o opinionisti, il recupero della sobrietà è elemento essenziale per preservare la credibilità della giurisdizione.

La Costituzione non vieta la separazione delle carriere, ma ogni revisione deve fondarsi su un confronto ampio e riflessivo, non su un regolamento di conti. Una riforma costituzionale approvata in un clima polarizzato e con scarsa partecipazione rischia di essere ricordata come un errore storico. Occorre promuovere un dibattito adulto e lucido, rifuggendo le contrapposizioni ideologiche. La questione centrale è un’altra: quale giustizia si vuole per il Paese? Più efficiente? Più accessibile? Più imparziale? Meno spettacolarizzata e più vicina ai cittadini? Se queste sono le direttrici, il referendum dovrà essere affrontato non come un giudizio politico sul governo, ma come una riflessione profonda sul futuro della democrazia italiana.

Privacy Policy Cookie Policy