La riflessione

Dal fascismo fino ad oggi la lunga marcia della Puglia verso uno «sviluppo reale»

Biagio Marzo

Con Vendola è cambiata l’immagine. Il grillismo? Evaporato ben presto

«E qualcosa rimane, fra le pagine chiare e le pagine scure» della «Puglia di ieri e di oggi». Gaetano Quagliariello, da par suo, ha gettato il sasso nello stagno politico in un momento in cui i partiti sono avvitati nelle candidature. Ha parlato, in due articoli, di una «Puglia a colori» e di una «rivoluzione mancata», quella del 2018 con l’exploit del M5S al 32%. Ma forse, prima ancora, occorre riflettere sulla «Puglia ieri e oggi», con le sue luci e le sue ombre: capire dove siamo arrivati passando dal fascismo alla Democrazia cristiana, dalla stagione socialista alla Seconda Repubblica, per misurare quanto la regione sia davvero decollata e quanto invece declinata, ossia rimasta prigioniera delle sue contraddizioni.

L’avvento del fascismo in Puglia ebbe caratteristiche a macchia di leopardo. A Bari emerse la leadership di Araldo di Crollalanza, che trasformò la città in vetrina del regime; a Taranto, città operaia e militare, il fascismo si impose con l’appoggio della Marina e degli industriali, reprimendo il movimento socialista; a Foggia il sostegno dei latifondisti alimentò lo squadrismo agrario guidato da Giuseppe Caradonna di Cerignola, usato contro le leghe bracciantili; a Brindisi il regime controllò il porto come snodo strategico; a Lecce, infine, le élite agrarie si servirono del fascismo per spegnere le lotte contadine e sostituire le amministrazioni liberali e socialiste.

Achille Starace, di San Nicola, segretario del Pnf, non fu amato dalla nobiltà e dalla borghesia leccese: lo canzonarono mordacemente, lui che aveva incrementato l’uso dell’orbace. Emblematico l’omicidio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno, assassinato il 25 settembre 1921 a Mola di Bari: fu il primo parlamentare vittima della violenza fascista. Nel 1924 si consumò poi la tragedia barbara di Giacomo Matteotti. In Puglia, il fascismo trovò spazio grazie al passaggio delle forze liberali di destra e dei nazionalisti: un «ventre molle» che si piegava sempre al potere, allora al fascismo.

Dopo l’8 settembre 1943, Brindisi divenne per breve tempo sede del governo italiano con Vittorio Emanuele III e Badoglio in fuga da Roma. Nel dopoguerra, al referendum del 2 giugno 1946, la Puglia si schierò a larga maggioranza per la Monarchia (65,4% contro 34,6% della Repubblica), con picchi a Lecce, Brindisi e Foggia. Alle elezioni politiche del 1948, con quei dati referendari, la vittoria della Dc era scontata: sostenuta dalla Chiesa e dalle campagne, la Dc rimase partito egemone fino al 1992, mentre il Fronte Popolare (Pci–Psi) si affermava solo nelle città operaie. La Puglia, moderata e a guida democristiana, cooptò anche molte forze fasciste e conservatrici. E il solito «ventre molle» si collocò comodamente nell’alveo democristiano.

Espresse leader di primo piano: al nord Aldo Moro, al sud Giuseppe Codacci Pisanelli, Giorgio De Giuseppe, Mario Mazzarrino, oltre a presidenti della Regione Puglia come Nini Quarta e Salvatore Fitto e Raffaele Fitto. Lo sviluppo fu trainato dalla riforma agraria, dalla Cassa del Mezzogiorno, da grandi opere pubbliche (acquedotto, edilizia, porti, strade) e dall’arrivo delle industrie di Stato (Italsider a Taranto, Enichem a Brindisi). La Dc si pose come mediatrice tra il Sud, che passava da agricolo a industriale, e lo Stato centrale, garantendo sussidi, pensioni e occupazione pubblica. Il PSI pugliese ebbe un ruolo di «cerniera»: governò con la DC in Regione e, negli enti locali, anche con il Pci. Espresse leader nazionali come Rino Formica e Claudio Signorile, interpreti di una cultura di governo riformista e gradualista. Ad entrambi va il merito di una progettualità che mise al centro sia il nuovo ceto medio in via di formazione sia la piccola e media impresa, alla scoperta del mercato nazionale e internazionale.

Ma, insieme alla DC, il PSI fu travolto da Tangentopoli (1992-94), che dissolse il sistema dei partiti tradizionali e aprì la strada a nuove forze: Forza Italia, AN - con Pinuccio Tatarella, teorico dell’«oltre la destra» - la Lega, il centrosinistra ulivista e, più tardi, M5S, Fratelli d’Italia e Partito Democratico. Con la Seconda Repubblica emerse un processo di deindustrializzazione che colpì Bari, Taranto e Brindisi, mentre Lecce e il Salento crescevano con turismo, cultura e sommerso nella «Tac».

A Bari scomparve la rete delle medie imprese, sostituita da un’economia dei servizi e dal turismo religioso e crocieristico; a Taranto esplose la crisi dell’ex Ilva, percepita come irreversibile; a Brindisi declinò la chimica. In questo contesto, la guida regionale divenne decisiva. Raffaele Fitto fu il primo presidente eletto direttamente dai pugliesi (2000): il suo tentativo più rilevante fu la riforma della sanità, mirata a razionalizzare un sistema cronicamente in deficit, ma pagò il prezzo elettorale di una riforma osteggiata sia dalle forze sanitarie corporative sia dalle popolazioni locali, contrarie alla chiusura ospedali e di reparti ospedalieri ormai superati dai tempi. Una battaglia campanilistica a tutto tondo. Con la sconfitta di Fitto iniziò un cambio elettorale sui generis: i pugliesi votarono l’espressione più ideologica e politica di sinistra, Nichi Vendola. La cavalcata delle coalizioni civiche è però più riconducibile a Michele Emiliano che a Vendola. Con Nichi Vendola (2005-2015) la Puglia visse una stagione retorica di «Primavera pugliese» e di rinnovamento d’immagine: la sua narrazione puntò su cultura, turismo, energie rinnovabili, diritti civili, proiettando la regione in uno scenario nazionale e internazionale nuovo, spesso oltre la consistenza economica reale.

Con Michele Emiliano (dal 2015), invece, prevalse un approccio pragmatico e civico: attenzione alla gestione quotidiana, all’equilibrio tra territori, al rapporto, talvolta in antitesi, con il governo centrale e con le vertenze industriali più complesse, in primis la siderurgia di Taranto, bandiera della sua battaglia per la decarbonizzazione. In verità, molti dei suoi sforzi, concentrati su temi ambientali, portarono a risultati modesti. La Puglia è cresciuta sul piano dell’immagine, del turismo e della cultura, ma ha visto indebolirsi la base produttiva. Una regione che ha imparato a raccontarsi meglio di come vive, grazie anche a presidenti autoctoni che hanno governato ognuno con la propria visione e sensibilità.

Resta però il nodo irrisolto: l’assenza di una vera strategia dei governi nazionali per il Mezzogiorno, senza la quale gli sforzi regionali non bastano. La lezione elettorale delle politiche 2018 non è stata compresa fino in fondo: il M5S, primo partito e per giunta antisistema, ottenne un consenso travolgente al Sud, portando in Parlamento decine di deputati e senatori privi di preparazione politica e di bagaglio culturale. Molti di questi «erano quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo», a chiacchiere. L’esperienza di governo si rivelò disastrosa e il Paese ne paga ancora i costi. Ben presto gli italiani capirono che, come in natura, la politica «non facit saltus»: il grillismo evaporò, mentre il contismo sopravvive affannosamente. Con il nuovo presidente, che sarà eletto il 23 e 24 novembre, la Puglia dovrà misurarsi con i problemi strutturali mai risolti - sanità, industria, lavoro, agricoltura, infrastrutture - e trasformare la crescita d’immagine in sviluppo reale. La sfida non sarà un pranzo di gala: sarà il banco di prova per capire se la regione saprà davvero passare dal racconto alla sostanza. Al successore di Michele Emiliano toccherà raccogliere la sfida: quando la partita si fa dura, è allora che lo sfidante dimostra il suo valore.

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