il commento

Le agenzie di rating promuovono il governo ma resta la manovra

Francesco Giorgino

Chi oggi tende a sottovalutare la «promozione» dell’Italia da parte di Fitch, una delle più importanti agenzie internazionali di rating, commette un doppio errore.

Chi oggi tende a sottovalutare la «promozione» dell’Italia da parte di Fitch, una delle più importanti agenzie internazionali di rating, commette un doppio errore. In primo luogo dimentica quanta enfasi in passato è stata riservata nel dibattito pubblico a tali parametri di valutazione ed orientamento quando erano negativi ed agli effetti che essi hanno avuto sulla politica interna. Rating e spread sono stati, infatti, la leva per attivare manovre di delegittimazione di governi eletti democraticamente dal popolo (il cosiddetto «elettorato attivo», volendo usare il linguaggio gius-costituzionalistico) e per argomentare in ordine alla loro sostituzione con esecutivi formalmente tecnici, ma sostanzialmente utili alla proroga del potere da parte di chi aveva perso le elezioni.

Il centrodestra è stato più volte vittima di questo approccio che indicava responsabilità singole in politica economica, dimenticando da quanti decenni il nostro Paese fosse costretto a misurarsi con il difficile quadro di finanza pubblica, la famosa «coperta troppo corta». A questo si aggiunga il fatto che non sempre si è tenuto nella giusta considerazione il fatto che, almeno nella definizione del quadro macro economico, agiscono contestualmente fattori esogeni ed endogeni. Se in passato valori negativi di rating e spread avevano avuto titolo per delegittimare l’azione politica, non si capisce perché oggi, a scenario mutato, non possano essere invece una fonte di certificazione della qualità della politica economica e la base per coltivare aspettative di segno positivo, visto che il governo guidato da Giorgia Meloni sta performando bene in ambito economico.

In secondo luogo va sottolineato che chi ridimensiona il passaggio dalla BBB alla BBB+ deciso da Fitch dimostra di non aver capito quale sia la reale posta in palio della visione coltivata dall’attuale esecutivo e quali siano i benefici correlati ad un percorso che rileva anche in termini di aumento della crescita. Un percorso che produce effetti positivi su tutto il territorio nazionale e che registra un valore oggettivo, indipendentemente dal fatto che a dibattere del tema siano esponenti di maggioranza o di opposizione. Ad aprile anche Standard & Poors aveva aggiunto il segno + alle tre B, indicando che la prospettiva sarebbe stata «stabile». A maggio il nostro Paese era stato promosso pure da Moody’s.

Meloni come Draghi, insomma. La Francia è stata declassata, anche a causa dei problemi dovuti alla consistente frammentazione politica dei nostri cugini d’oltralpe. All’ex presidente della Bce economisti, intellettuali, opinionisti e rappresentanti del mondo produttivo ed economico hanno riconosciuto grandi capacità nella gestione della finanza pubblica e nella programmazione della politica economica. Se non ci fosse tanto strabismo ideologico, lo stesso dovrebbe avvenire in favore dell’attuale Presidente del Consiglio.

Fitch prevede una «continua e graduale riduzione» del deficit (ma non del debito) nel periodo 2025-2027, con un disavanzo che per quest’anno è stato valutato intorno al 3,1% del Pil e una crescita dello 0,6%. Prevista, altresì, un’accelerazione ad una media dello 0,8% nel periodo 2026-2027. La spiegazione di queste valutazioni/previsioni ruota intorno alla prudenza e alla lungimiranza dei policy makers italiani, agli investimenti effettuati (la domanda interna) e alla solidità del sistema bancario nazionale. Tra l’altro, il Tesoro ha annunciato l’emissione dal 20 al 24 ottobre di un nuovo titolo di Stato per piccoli risparmiatori: avrà la durata di sette anni con cedole trimestrali crescenti dopo i primi tre anni, ma anche dopo il quarto e il sesto. Il premio fedeltà finale sarà dello 0,8%.

La stabilità del governo Meloni, la sua credibilità davanti ai mercati, il sostegno a chi crea lavoro e ricchezza costituiscono la ragione principale del ritorno dell’Italia, dopo dieci anni, nella «fascia alta» del credito sovrano. È stata la stessa premier a sottolineare questi elementi. È solo un brutto ricordo la stagione della massima vulnerabilità raggiunta con la crisi dell’eurozona del 2011. Da diversi mesi ormai il nostro Paese può presentarsi a Bruxelles senza dover subire quegli sguardi vigili e diffidenti che normalmente sono riservati agli osservati speciali. L’Italia ora può girare in Europa a testa alta, anche se è evidente che occorre lavorare ancora di più per aumentare la produttività e gli investimenti e per rendere il mercato del lavoro competitivo, partendo ovviamente dalla gestione degli effetti negativi della delicata congiuntura internazionale.

La fiducia è l’elemento cardine per proiettare una nazione nel futuro. A tal proposito, un’altra notizia degna di nota arriva con la revisione del PNRR, indispensabile per mettere in sicurezza i quasi 200 miliardi di fondi europei a noi assegnati e che vanno impiegati entro il 2026. Giovedì prossimo a Palazzo Chigi ci sarà una cabina di regia con la Meloni, le imprese e le parti sociali prima di arrivare alla definizione della proposta finale da sottoporre al vaglio del Parlamento. Il tema si intreccia con la legge di bilancio, visto che si sta cercando di individuare quei percorsi agentivi indispensabili a far decollare la «fase 2» del governo, con beneficio soprattutto del ceto medio. Il tutto va posto in correlazione con le indicazioni della Commissione europea, la quale in materia di PNRR privilegia il ricorso alle facilities proprio per gestire al meglio il timing delle risorse. Si tratta di veicoli finanziari che permetterebbero di superare la scadenza di agosto 2026 per la rendicontazione delle spese e che valgono circa dieci miliardi.

Intanto Il governo sta cercando risorse per il taglio dell’Irpef. L’idea è quella di ridurre l’aliquota del secondo scaglione passando dal 35 al 33%, ampliandolo nel frattempo ai possessori di redditi fino a 60 mila euro annui (attualmente è fino a 50mila euro). Così facendo, si passerebbe dall’attenzione ai redditi bassi e medio bassi all’attenzione per i redditi medi, con significativi risparmi d’imposta. Per far questo, però, servono circa 5 miliardi: non è facile trovarli, ma la volontà politica c’è tutta. Se si riuscisse ad operare in tale direzione, avremmo tre scaglioni di reddito: 23% per i redditi fino a 28mila euro; 33% per quelli da 28mila a 60mila euro; 43% per quelli oltre i 60mila euro. Si sta pensando anche a nuove detrazioni in base alla numerosità dei diversi nuclei familiari. Nel frattempo Confindustria ha chiesto un piano per lo sviluppo dell’impresa. Piano che quota circa 8 miliardi e che è indispensabile.

Alla premier spetta la sintesi dopo aver studiato nel dettaglio l’istruttoria tecnica portata avanti dal Mef. È noto che nella maggioranza ci sono sensibilità diverse. Altrettanto lo è il fatto che aumenteranno le spese per la difesa. Le coperture dovrebbero arrivare soprattutto dal concordato preventivo biennale per le partite Iva. C’è attesa per domani, quando l’Istat renderà noto l’aggiornamento dei conti economici 2024. Non si dimentichi, infine, che mancano due settimane alla presentazione da parte del governo del Def, ovvero del Documento di Economia e Finanza con le nuove stime su Pil, deficit, debito, fabbisogno e spesa netta.

Molte cose si capiranno da come verrà strutturato proprio questo importante strumento di programmazione economica e finanziaria.

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