L'analisi

Dai moderati al centrodestra fino a Emiliano e Vendola: i colori della storia pugliese

Gaetano Quagliariello

Le Puglie, nella storia della Repubblica, si debbono considerare terre di moderati

Le Puglie, nella storia della Repubblica, si debbono considerare terre di moderati. Sulla cartina non sono mancate certo le zone rosse, in omaggio a una tradizione politico-associativa che ha differenziato nel lungo periodo la vicenda regionale rispetto alle altre realtà meridionali. Ma in una considerazione d’insieme l’equilibrio centrista, se ha pencolato verso un campo, l’ha fatto piuttosto verso destra. Come accadde nel 1952-53, quando monarchici e missini conquistarono le più importanti amministrazioni comunali e provinciali della regione, contribuendo a mettere in grave apprensione il governo di Alcide De Gasperi.

Sicché, quando il Paese è transitato dalla Prima alla Seconda Repubblica ai più è apparso fisiologico - se non scontato - che la nuova destra di governo raccogliesse il testimone del potere. In molti, allora, avrebbero scommesso che le vittorie di quella fase di transizione avrebbero dato luogo a un’egemonia di lungo periodo. Invece la politica, una volta ancora, ha mostrato più fantasia di storici e analisti. Nei trent’anni del «nuovo regime», infatti, per ben venti la regione è stata governata dalla sinistra. E oggi, alla vigilia di una nuova competizione, le Puglie sono addirittura ricomprese tra le «regioni rosse»: in quell’ormai ristretto novero di territori per i quali l’esito della competizione non è dato mettere in dubbio.

Tenuto conto che gli altri componenti del club sono Toscana ed Emilia- Romagna, è abbastanza sorprendente che nessuno se ne sorprenda. Anche perché questa collocazione non è immune da contraddizioni e peculiarità. Nel tentativo di capirci qualcosa di più, allora, varrà riavvolgere il film della storia politica regionale, partendo da quando l’equilibrio centrista rappresentava una certezza e soffermandosi poi su alcuni passaggi importanti se non proprio decisivi.

Scorriamo le mappe della distribuzione del voto alle elezioni regionali pugliesi dal tempo di Moro sino al crepuscolo della Prima Repubblica. Il colore dominante resta sempre lo stesso: il candore ieratico della «Balena bianca».

Per una lunga stagione la Puglia è stata terra «governativa», fedele interprete delle decisioni prese nei palazzi romani. Roma locuta, causa finita. La Democrazia Cristiana, però, più che un partito è stata un mondo. Il potere al suo interno era frammentato. Lo spazio territoriale veniva rispettato. Poteva persino accadere che l’esponente più illustre a livello nazionale raccogliesse, in sede locale, meno voti del numero due. Non se ne faceva una tragedia.

Anzi il numero uno, lungi dal viverlo come un’onta, ne traeva una sottile compiacenza perché il peso delle pur necessarie clientele era così venuto a gravare su spalle altrui.

Quando con la Seconda Repubblica quelle mappe vengono inondate dai colori dei nuovi partiti sorti dalle macerie della Prima, la regola non cambia. E nel 2000, dopo che il «Tatarellum» imprime al voto regionale una torsione maggioritaria e presidenziale, la vittoria arride a Raffaele Fitto, giovane esponente di stirpe democristiana, che diviene il più giovane presidente di Regione fino ad allora mai eletto. L’enfant prodige arruolato da Forza Italia conquista la Puglia a soli trentun anni. Un primato non solo anagrafico ma anche simbolico. Segno che il Sud berlusconiano sapeva forgiare giovane classe dirigente pronta alla sfida del governo nazionale. ll «maestro d’orchestra», in questa fase, è Pinuccio Tatarella. Uno abituato ad andare «oltre» e, per questo, a non chiudersi mai in un recinto. Anche al costo di incorrere in qualche incidente di percorso. Come quando, ancora in vita l’Msi, non fu eletto perché scavalcato nelle preferenze da Don Olindo Del Donno: un sacerdote, cappellano militare, che proprio lui aveva fortemente voluto in lista. In questa stagione, occorre sottolinearlo, il governo regionale e Palazzo Chigi marciano all’unisono. Vi è una coincidenza quasi perfetta tra voto locale e voto nazionale. Così come i colori dell’amministrazione del capoluogo e del governo della regione sono identici. Poi, all’improvviso, la rottura.

Nel 2004, Michele Emiliano si toglie la toga e indossa la clamide, strappando Bari al centrodestra. Si avvera, allora, una vecchia massima della politica pugliese che i più attribuiscono proprio a Tatarella: «chi vince a Bari, vince in Puglia». L’anno dopo, Nichi Vendola compie l’impresa. Il poeta tribuno conquista la Regione per un soffio, confermando così la regola. Si situa qui il primo punto fermo del nostro piccolo amarcord politico-elettorale.

Nel 2005 in Puglia, mentre viene confermata la coincidenza tra i risultati del capoluogo e quelli della regione, salta l’altro paradigma politico che si era radicato nei decenni: la coincidenza obbligata fra voto locale e voto nazionale. Da roccaforte dell’ordine politico, la Puglia diventa fucina di un potere alternativo. Allora le chiamarono «le fabbriche di Nichi» (Vendola). Oggi stiamo assistendo agli sviluppi ultimi dell’originaria intuizione.

Michele Emiliano, però, non si è limitato a raccogliere l’eredità vendoliana. Ha elevato alla potenza il modello del civismo «progressista», ampliando il consenso seguendo tragitti trasversali. È riuscito a costruire un «partito-regione» solido come una cattedrale romanica, immune alle intemperie dei cicli politici nazionali e in grado di resistere persino all’uragano grillino. Un potere dai molti volti. Fatto di leadership carismatiche e di personalizzazione sempre più spinta. Che sfrutta il vantaggio degli incumbent - per dirla all’americana - radicandoli nelle reti civiche e amministrative. Un potere fondato su ampie clientele e una comunicazione che traveste con l’innovazione la deriva plebiscitaria. E poi, la «virtù» più antica. La resilienza agli scandali. La sinistra pugliese ha resistito a tutto, comprese le accuse di compravendita di voti – che oggi Vendola promette di voler denunciare.

Nessuno scossone è riuscito a scalfire la signoria politica del campo pugliese, più o meno largo lo si voglia considerare. Perché questo è potuto accadere? Le cause adducibili sono tante. A noi, però, sembra che una sovrasti tutte le altre. La Puglia è grande. Soprattutto è lunga. Da San Giovanni Rotondo a Santa Maria di Leuca corrono quasi quattrocento chilometri. E circa quattro ore di macchina. Durante il viaggio il paesaggio cambia sovente. Per fermarci a quello agricolo, si passa dai latifondi che ispirarono la «questione meridionale» di Salvemini e Gramsci ai muretti a secco del sud est barese. Quelli che ancor oggi limitano la piccola proprietà, consentono lo sfruttamento intensivo e redistribuiscono ricchezza: quasi si trattasse di «proudhonismo realizzato»! Per poi passare a nuovi territori sterminati, quelli del Salento, dove però, storicamente, la figura del mezzadro ha sostituito quella dei contadini con la coppola, reclutati la mattina dal caporale nella piazza del Paese. Ecco: questa realtà così composita non può essere governata da un leader solo. Neppure dalla proiezione di una classe dirigente che trascorre il suo tempo in prevalenza a Roma. Ha bisogno di edificare «un mondo». Come con naturalezza fece la Democrazia Cristiana.

E in questo tentativo, dopo Tatarella, la sinistra è stata più brava. Ha semplicemente surclassato il centrodestra.

[Continua]

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