il problema
Dalle periferie ai rom il fallimento di una società non coesa
Affrontare queste realtà solo con più leggi penali è illusorio. Serve un impegno diretto e duraturo dello Stato: istituzioni presenti, presidi sociali, centri culturali
Grande emozione ha suscitato il drammatico episodio in cui una donna ha perso la vita, travolta da un’auto rubata guidata da un ragazzo di giovanissima età, con a bordo altri minori tra gli undici e i quattordici anni di origine Rom. La vicenda ha riportato alla ribalta il tema della devianza minorile e, insieme, il dibattito sulla questione Rom e sul rapporto tra percezione pubblica e realtà sociale.
Il caso ha acceso un serrato dibattito politico e un vivace confronto sulla stampa e sui social, spesso in toni sguaiati, trasformando l’episodio in un processo collettivo contro l’intera comunità Rom. Nella cronaca quotidiana ricorrono episodi di donne accusate di borseggi, talvolta in stato di gravidanza e quindi non detenibili, e di gruppi di minorenni che rubano per conto della famiglia o del capo clan e vagano per la città chiedendo l’elemosina nei centri cittadini, lontani dai loro insediamenti.
Questi fatti, pur riguardando una minoranza dei Rom che vivono in tali contesti, alimentano stereotipi e giudizi sommari. Alla base vi sono spesso condizioni di marginalità estrema: assenza di lavoro stabile, scarsa scolarizzazione, precarietà abitativa. Molte famiglie risiedono in campi di periferia privi di servizi essenziali, dove povertà, esclusione sociale e difficoltà di integrazione si sommano. Altre famiglie, una minoranza, abitano in plessi residenziali e padre e madre lavorano per portare i propri figli in uno Stato sociale superiore, facendoli studiare sino all’università.
Le periferie urbane - non solo quelle abitate da comunità Rom - sono oggi una vera emergenza politica, economica, sociale, culturale e civile. In molte di esse la presenza dello Stato è minima o assente, lasciando spazio a un humus fertile per criminalità di ogni genere: rapine, spaccio di droga, microcriminalità diffusa. Qui la devianza giovanile trova terreno fertile, con ragazzi attratti da guadagni immediati e privi di alternative concrete. In questo contesto, il governo ha varato il cosiddetto Decreto Caivano (decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123), pensato per contrastare la criminalità minorile e l’abbandono scolastico, con misure specifiche contro il fenomeno delle cosiddette «baby gang». Si tratta di uno strumento d’intervento immediato che, pur nella sua finalità repressiva e preventiva, rischia di restare parziale se non accompagnato da politiche sociali e culturali capaci di agire sulle cause profonde della devianza.
Affrontare queste realtà solo con più leggi penali è illusorio. Serve un impegno diretto e duraturo dello Stato: istituzioni presenti, presidi sociali, centri culturali, spazi di aggregazione per giovani e anziani. Un’occasione in tal senso era stata avviata con la legge sulle periferie varata dal governo Renzi, poi cancellata dal governo Conte. Durissime furono le proteste dell’ANCI: la delegazione guidata dall’allora presidente e sindaco di Bari, Antonio Decaro, abbandonò la Conferenza Stato-Regioni per contestare la decisione, considerata politicamente miope e priva di una visione sulle reali condizioni di emarginazione in cui vive il «popolo» delle periferie. Comunità tagliate fuori dalla civiltà del presente e senza prospettive di futuro: un altro mondo, ma in peggio. Sul piano terminologico, è importante ricordare che Rom è l’autodenominazione - un etnonimo - di un popolo di origine indiana diffuso in tutta Europa; in lingua romani significa «uomo». I termini «gitani» e «zingaro», invece, sono eteronimi attribuiti dall’esterno e oggi considerati da molti offensivi.
La loro origine risale probabilmente al nome di un’antica setta eretica, gli athìnganoi («intoccabili»), attestata nel V secolo d.C., con cui, nel XII secolo, vennero indicate popolazioni provenienti dall’Asia Minore giunte nell’Impero Bizantino. I Rom, fin dal loro arrivo in Europa nel XV secolo, sono stati perseguitati, cacciati e banditi per la loro diversità. Le loro culture, la loro lingua, i loro sistemi sociali, così diversi da quelli della società maggioritaria, sono stati costantemente negati.
Il culmine della persecuzione si è avuto in epoca recente, con lo sterminio nazista e fascista. Un’inchiesta di alcuni anni fa ha rilevato che molti Rom si dedicano ancora a mestieri tradizionali: allevamento dei cavalli, lavorazione dei metalli, spettacolo viaggiante. Distinguere correttamente storia, lingua e cultura da cronaca nera e pregiudizi è il primo passo per affrontare problemi radicati. Non si tratta di indulgere o giustificare comportamenti illeciti, ma di riconoscere che la sicurezza urbana e la coesione sociale si costruiscono investendo sull’inclusione, sul lavoro e sull’istruzione.
Le periferie e i campi Rom sono oggi specchi della nostra incapacità di essere una comunità coesa: riformarli significa riformare il Paese. E questo, più che una scelta politica, è un dovere civile.