L'analisi

Quella farsa senza copione tra Trump e Putin è servita solo a legittimarsi a vicenda

Carmen Lasorella

E come si possono giustificare i sorrisi, gli sguardi di complicità, le battute reciproche dinanzi ad una catastrofe nel cuore dell’Europa che da tre anni e mezzo esige dall’Ucraina un prezzo altissimo, minacciando la sicurezza dell’Unione e dei cittadini europei?

L’approssimazione e l’inadeguatezza dell’incontro di Anchorage, in Alaska, tra Trump e Putin - attori di una recita senza copione, eppure, a guardarli, entrambi di buon umore – ci lasciano nello sconforto di una improvvisazione mal riuscita sullo sfondo di un assurdo tappeto rosso. E come si possono giustificare i sorrisi, gli sguardi di complicità, le battute reciproche dinanzi ad una catastrofe nel cuore dell’Europa che da tre anni e mezzo esige dall’Ucraina un prezzo altissimo, minacciando la sicurezza dell’Unione e dei cittadini europei? Un negoziato per la pace, mentre prosegue la guerra è di per sé uno sproposito.

Ma l’assenza di priorità, di visione e dei comprimari di diritto sulla scena svuotano di credibilità l’obiettivo. I due leader si sono incontrati per legittimarsi a vicenda, forti di rapporti personali di lunga data – rapporti opachi e tossici, li ha definiti senza perifrasi il quotidiano francese Le Monde – eppure neanche una partita concordata ha sortito il minimo degli effetti giustificabili, che ci si poteva aspettare. Niente tregua, niente agenda di lavoro, niente particolari, appena generiche intese. «Una vergogna» nel giudizio di Kiev. Putin, più giovane e astuto ha ceduto all’eccitazione del gioco, guadagnando in poche ore la scena che aveva perduto nei mille e passa giorni di isolamento politico ed economico, mirati ad annientarlo; l’irriducibile Trump, che ha perso la mano, ha subito rilanciato, telefonando ai leader europei ed annunciando una trilaterale con Putin e Zelensky, magari già in settimana, subito assecondato dagli uni (tra gli europei, in particolare il cancelliere tedesco Merz, dopo la sua visita a Washington, gratificato dal ruolo di «partner indispensabile» nella parole di Trump per il suo progetto MAGA – Make America Great Again) e dagli altri (il leader ucraino inevitabilmente e lo zar, consapevole di dover assecondare il super-ego del compagno americano). In una dichiarazione al Cremlino, successiva al vertice, Putin ha infatti subito precisato: «Il colloquio col presidente Trump ci avvicina a soluzioni necessarie». The show must go on, allora, il sequel deve proseguire, benché ci si ritrovi dinanzi alla vanità della politica esibita, nel vuoto di una politica che dovrebbe avere il dovere della pace. Il dovere della pace. Un anno fa, la comunità dei cattolici riunita a Trieste, dinanzi all’incalzare delle guerre, ispirata da papa Francesco, proponeva alla politica, soprattutto ai candidati alle elezioni europee, l’obbligo morale di agire contro le guerre. Un messaggio forte, rivolto ai credenti, ma anche agli uomini e - aggiungiamo - alle donne di buona volontà, intorno alle ragioni e ai principi per lo sviluppo sociale.

La nuova Europa emersa dalle urne e i suoi governi fin qui hanno deluso, (indispensabile tuttavia continuare investire in un cambiamento, che ci auguriamo possibile) l’era Trump, invece, sistematicamente e almeno per il momento, ha travolto i diritti e annichilito gli obiettivi. Nel caos mondiale che ha generato, il tycoon sguazza a proprio agio, ma con quale credibilità? Nonostante il cambiamento epocale che stiamo attraversando, guidato con spregiudicatezza dagli Stati Uniti, la ricetta per la pace non cambia. La sua ricerca si fonda sulla solidarietà tra i popoli, sulla cooperazione internazionale e sul superamento delle divisioni in un progetto laico condiviso, almeno per cominciare.

D’altra parte, nello smarrimento di questi mesi di fronte ad atrocità che ci trovano impotenti, quasi assuefatti alle narrazioni che giustificano la violenza e la militarizzazione sotto il cielo della dea Europa - laddove la corsa agli armamenti porta alla tirannia, come rifletteva Don Sturzo - la necessità di quel progetto condiviso diventa impellente. Non si ricostruisce l’identità europea nella ricorsa estenuante, (imposta da Trump e dai suoi alleati o sodali, Netanyahu e Putin) dei vari leader occidentali che si precipitano a Washington a comando. Da ultimo, basterebbe soffermarsi sul report relativo agli abusi in tema di diritti umani, diffuso come ogni anno dal Dipartimento di Stato americano e offerto martedì scorso al Congresso degli Stati Uniti per le consuete valutazioni. Il documento è stato stravolto nell’impostazione e così nei contenuti.

I redattori dell’ufficio avevano quasi ultimato il lavoro già nei primi mesi dell’era Trump, ma poi, in gran parte sostituiti dal personale inserito dalla nuova Amministrazione, ne hanno seguito le nuove linee guide. In pratica, a differenza del passato, secondo la CNN e non solo (il giudizio è condiviso da Amnesty, Human Right Watch, ecc.) ne è risultato un dossier «ridimensionato, pieno di omissioni, critico nei confronti di molti Paesi, anche a sproposito, sbiadito invece nelle censure verso quelli più vicini al presidente». A titolo di esempio: la Francia, la Germania e la Gran Bretagna sono stati citati nel documento con l’accusa di violare la libertà di parola. Così il Brasile ed il Sud Africa, considerati ostili dall’Amministrazione, che ne ha sottolineato la situazione «significativamente peggiorata» dei diritti umani. Nessuna sottolineatura invece per il Salvador del presidente Bukele, dichiaratamente nelle simpatie di Trump. La sempre fragile democrazia centro-americana sta scivolando in un regime, dove, con pugno di ferro si reprime ogni libertà civile, mentre le carceri del paese sono affollate da oppositori politici e immigrati deportati, detenuti in condizioni disumane. Nessun accenno. Poco spazio anche all’Afghanistan, consegnato ai talebani proprio dalla prima amministrazione Trump. Scarsi i riferimenti alle violenze quotidiane in corso, soprattutto sulla pelle delle donne, ma la sottolineatura che, in tema di sicurezza, il governo islamista radicale avrebbe fatto notevoli passi in avanti.

E a proposito d’Israele? A fronte delle quasi 100 pagine dedicate lo scorso anno alla «guerra di Gaza», corredate di appendici e citazioni, nel report attuale se ne ritrovano appena una decina. Non rileva la catastrofe umanitaria che ha sprofondato nell’inferno i palestinesi, oramai da quasi 700 giorni, né l’esorbitante numero di vittime. Non sono annotate - a differenza del report precedente - anche le responsabilità in capo alle truppe di occupazione israeliane o al governo fondamentalista di Netanyahu. Ossessivamente si ripete il nome di Hamas, così come la minaccia del terrorismo. E gli ostaggi israeliani che non sono stati liberati? E i prigionieri palestinesi che restano in carcere senza processo? Vengono incontro le immagini, che hanno mostrato per pochi secondi l’ultimo leader dei palestinesi Manrwan Barghouti e che hanno fatto il giro del mondo. Barghouti è in isolamento dal 7 ottobre del 2023, ovvero dal pogrom di Hamas contro Israele e in cella da 23 anni. Se ne ignorava la sorte. Scortato da una telecamera, Ben Gvir, il più oltranzista dei ministri israeliani, è andato invece proprio da lui per umiliarlo, convinto di affossare così anche l’ultima speranza dei palestinesi.

Quelle riprese, invece: un uomo inerme che guardava negli occhi il suo carnefice hanno ingigantito il senso dell’umanità che è più forte della violenza, punendo l’arroganza, L’effetto è stato dirompente. Addirittura la speranza si è riaccesa. Per Trump, considerato quanto scritto, compreso l’imbarazzante report del suo dipartimento e arrivando a Barghouti, potrebbe essere un’ottima lezione. La realtà mistificata si vendica e l’arroganza non paga. I fatti parlano, benché si provi a nasconderli e le coscienze, che non si vendono, continueranno a ribellarsi.

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