l'analisi
La riforma vera della giustizia è una mission politica di cui finora non c’è traccia
Il Giudice, e con esso il potere giudiziario, è espressione dell’ordinamento, anche eurounionale, e costituisce il terzo potere dello Stato.
Sotto ostaggio dei giudici, è il termine più ricorrente nel linguaggio politico per testimoniare due cose: la voglia della magistratura di intervenire sull’esercizio delle politiche governative (l’ultima quella della Corte di giustizia su quella migratoria); l’aggressione nei confronti di esponenti della politica attiva attraverso il loro esercizio obbligatorio dell’azione penale.
In entrambi i casi, il ricorso ad un siffatto linguaggio, che spesso arriva ad essere arricchito da particolari epiteti buoni per dimostrare (sic!) l’esistenza dinamica di un «partito dei giudici», costituisce una plateale offesa alla Costituzione. Non solo. Serve forse a dissolvere l’attenzione dal «partito contro la magistratura» formatosi nelle file della maggioranza che governa il Paese.
Il Giudice, e con esso il potere giudiziario, è espressione dell’ordinamento, anche eurounionale, e costituisce il terzo potere dello Stato. In quanto tale deve assicurare la tutela dello Stato di diritto ed esercitare l’azione penale ogni qual volta vengano violate le leggi comportanti reati. Ma da parte di chiunque, nessuno escluso. Appare pertanto stomachevole ogni campagna «diffamatoria» messa in campo dalla politica, con il contributo di certa stampa, allorquando vengano avviate indagini e condivisi i relativi rinvio a giudizio di esponenti più o meno noti della politica. Specie di quelli che l’abbiano eretta a proprio stabile lavoro.
Il condividere un siffatto operato non vuole dire asserire la bontà del giustizialismo, come taluni ritengono di affermare. È tutt’altro.
È il garantismo offerto dalla Costituzione, quella che con la recente approvazione del Ddl costituzionale perfezionata il 22 luglio scorso si intende stravolgere. Peraltro, facendo passare tale revisione della Costituzione, ricorrendo al vocabolario della politica, per la «riforma della giustizia», che è tutt’altra cosa. Quanto approvato con 106 senatori favorevoli, 61 contrari e 11 astenuti - nella vulgata comune ritenuto funzionale ad essere speso come separazione delle carriere dei magistrati - altro non è che un Ddl costituzionale. Un provvedimento - quello licenziato dal Senato in seconda e definitiva lettura con una maggioranza insufficiente e che dovrà essere pertanto sottoposto ad un referendum popolare confermativo (art. 138, comma 2) - che è inteso a modificare gli artt. 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110 della vigente Costituzione.
Proprio per una siffatta caratteristica, posseduta dal Ddl costituzionale di iniziativa del Governo, è quantomeno improprio definirlo «Riforma della Giustizia», che significherebbe mettere mano alla intera disciplina del terzo potere dello Stato. Un gioco da niente, certamente non perseguibile limitandosi a distinguere lo stato giuridico dei magistrati impegnati nel penale che esercitano il ruolo requirente da quelli che svolgono la funzione giudicante.
La riforma della Giustizia, che toccherebbe ben altre dimensioni di confronto di quelle trattate dall’anzidetto Ddl costituzionale recante «Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare», dovrebbe essere organicamente finalizzata ad individuare un diverso modo di concepire la funzione della Magistratura. Meglio, a regolare e regolamentare i suoi diversi ruoli che vengono esercitati per produrre la Giustizia. Per conseguire un tale pregevole risultato, necessiterebbe l’assunzione di una convinta mission politica rappresentativa dell’aspettativa del legislatore «costituzionale» di migliorare strutturalmente la composizione delle diverse giurisdizioni sotto il profilo della loro dinamicità di esercizio differenziato. Questa sarebbe una ratio apprezzabile perché intesa a velocizzare i processi e, quindi, a pervenire alle decisioni più ragionevoli, forse accorciando i gradi di giudizio che per la loro eccessività rendono difficili e lunghi gli esiti processuali, facilitando nel contempo la maturazione di prescrizioni spesso indebite.
Tutto questo può trovare la sua sintesi in una sequela di provvedimenti legislativi funzionali a riscrivere le giurisdizioni a tal punto da ottimizzare secondo l’esprit des lois unitario un prodotto normativo coordinato e strutturalmente adeguato che renda il giudizio della magistratura più conforme alle esigenze di Giustizia.
Per pervenire ad una tale importante aspettativa di grande interesse pubblico, occorre un forte impegno del Parlamento, ma certamente diverso da quello esercitato sino ad oggi in tale presunto senso. Ripensando, dopo il verosimile tonfo referendario, a quanto deciso sino ad oggi in termini di «separazione delle carriere», ma rivedendo altresì quella riforma della Corte dei conti, utile a sottrarre dalle responsabilità decisori politici e dirigenti, beneficiati della buona fede per presunzione iuris tantum, e a mettere le catene ai polsi della Magistratura contabile che, così come la si pretende, andrebbe a perdere il significativo ruolo che la Costituzione le ha riconosciuto (art. 100).
Proseguire negli interventi a completamento della ratio manifestata dalla maggioranza, per il momento in due occasioni al lordo del Ddl cosiddetto Foti, significa intercettare la volontà di dividere, rispettivamente, il giudice requirente comunque dal giudicante e di spazzare via molti dei presidi di legalità contabili, indispensabili a fare giustizia dei conti del sistema autonomistico territoriale. Certamente, più complessi ad esito della spesa dei fondi PNRR.
Ciò che sta accadendo – che trascura tra l’altro la revisione del processo tributario e forse l’eliminazione del privilegio della politica di incidere nella composizione della magistratura amministrativa di secondo grado - è infatti l’esatto contrario di quanto occorra per mettere mano alla vera «Riforma della Giustizia». Il tutto con la pretesa di mettere in campo ratio diverse e spiriti legislativi contraddittori ma strumentali al conseguimento di un prodotto legislativo apprezzabile, che eviti l’esercizio ideologico delle diverse giurisdizioni, tanto nocive alla realizzazione della giustezza degli esiti dei diversi processi, che come si sta facendo oggi si tendono ad evitare piuttosto che a rendere più corretti.