l'analisi

Ucraina verso la tregua, ma la Casa Bianca mette la Cina nel mirino

Carmen Lasorella

La guerra di Putin all’Ucraina, sferrata tre anni e mezzo fa nel cuore dell’Europa, sembra vicina ad una soluzione che porterebbe al cessate il fuoco

La guerra di Putin all’Ucraina, sferrata tre anni e mezzo fa nel cuore dell’Europa, sembra vicina ad una soluzione che porterebbe al cessate il fuoco. Se ne discuterà, però, assente l’Europa e soprattutto l’Ucraina, in Alaska, in un vertice bilaterale tra gli Stati Uniti e la Russia, mentre la Cina, attaccata in un aspro confronto verbale dagli americani qualche giorno fa nella riunione convocata all’Onu sull’Ucraina, invitava ad una soluzione politica per una pace duratura intorno a un tavolo europeo. Nell’editoriale di lunedì scorso avevamo parlato del Risiko di Trump, che gioca alla politica internazionale, scegliendo i giocatori, contigui alla sua visione, incardinata sui soldi e sull’uso della forza. Vale a dire: il ricco mondo dei paesi arabi del Golfo, lo stesso Putin, i dittatori sudamericani, gli autocrati dei movimenti ultranazionalisti della destra europea (parleremo tra poco del Giappone) e naturalmente, Netanyahu - non scelto, ma subìto.

Ancora una volta, allora, l’inquilino della Casa Bianca ha mostrato la sua America - come già scritto - per quella che è diventata: «non più l’alleata affidabile dell’Unione, ma il baluardo decisivo e decisore della sicurezza europea».

Il vertice fissato per venerdì prossimo, nel fresco dell’Alaska, dunque in territorio americano, in attesa dei ghiacci e del prossimo incontro, pare a Mosca, conferma in pieno la strategia tracciata in una tempistica veloce e condivisa con i russi. Le minacce reciproche che hanno scomodato lo spettro delle armi atomiche, spostando allo scopo due sottomarini nucleari americani vicino alla Russia, che in risposta ha annunciato i suoi missili ipersonici con testate nucleari puntati sull’Europa; un negoziato che lascia il vecchio continente e l’Ucraina a fare da tappezzeria; la paura che si fa incubo; i bombardamenti russi che si intensificano aumentando il numero dei morti; il sacrificio inevitabile del paese aggredito, costretto a cedere una parte cospicua del suo territorio al paese aggressore. Se il prezzo della pace passa dalla vittoria di Putin, Trump pragmaticamente intende riconoscerla. Non conta l’attacco alla sovranità di uno stato, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica. Per lui, sono coriandoli. La sua politica si sta dimostrando più disastrosa dei danni provocati dalle guerre, indifferente alla teoria di morte che sacrifica i popoli. Le reazioni però non arrivano. Anzi, c’è da aspettarsi un peana, il solito, costruito dai social di comodo che oramai orientano la scarsa attenzione che resta nelle nostre società, attente al niente.

Del resto, l’accettazione del genocidio di Gaza e il diktat di Netanyahu, arrivato a promette la striscia «libera» dai palestinesi con l’annessione delle Cisgiordania entro il prossimo 7 ottobre, a due anni esatti dal pogrom contro Israele per mano di Hamas, che forse si sarebbe potuto evitare con una politica della sicurezza efficiente, dà la misura del vuoto etico, ma anche della filosofia che l’accompagna: quando serve troppo tempo, se la matassa è troppo intricata e i vantaggi non ci sono, il costo dei principi lo pagherà qualcun altro. Che poi il presidente Netanyahu, come il presidente Putin siano stati raggiunti da mandato d’arresto, emesso dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, non rileva: gli Stati Uniti non riconoscono la CPI, che non può portare a processo i presunti colpevoli, senza la collaborazione degli Stati. Ciò che conta è ciò che Bibi e Vladimir rappresentano: entrambi sono interlocutori necessari. Allora? Due pesi e due misure anche per la guerra, farcita di ipocrisie e di bugie, come e più di sempre.

In Europa, Trump si porta a casa la tregua, cui forse seguirà la pace, poco importa se non sarà giusta. In Medioriente, ad Israele toccherà una vittoria di Pirro. La prima sarà un buon investimento da subito e metterà al guinzaglio gli europei; a proposito dell’altra - la Nakba, la catastrofe per i palestinesi, precipitati in un abisso atroce - se l’aggiusteranno gli ebrei, Trump potrà sempre dire di averci provato. Per lui il tempo è denaro.

Si è giusto occupato della questione del Nagorno Karabakh, con l’accordo di pace appena firmato alla Casa Bianca tra il presidente dell’Azerbaijan Aliyev e il primo ministro armeno Pashiian. Grazie a lui, sono state fissate intese bilaterali ed economiche per gli Stati Uniti, in un’area di annose dispute di confine, intrecciate agli interessi iraniani, turchi e russi, che storcono tutti il naso, ma abbozzano. A chi tocca, adesso?

Accennavamo alla riunione dell’Onu a New York.

Perché il delegato degli Stati Uniti ha attaccato, leggendo un discorso già preparato, il rappresentante permanente della Cina alle Nazioni Unite, l’ambasciatore Geng Shuang, che aveva appena finito di parlare addirittura di pace e di diritti, nell’urgenza di abbandonare una mentalità da «guerra fredda»? La Cina recita bene il suo nuovo ruolo in commedia: un ossimoro della storia! Il softpower dei mandarini, a prescindere dall’illiberale modello politico cinese che esprimono, si propone come alternativa possibile alla ruvidezza degli yankee. Incredibile, ma oggi possibile. E Trump, disinteressato a stabilire il feeling giusto con i cinesi, ne soffre l’incubo, che irrompe nei suoi deliri di onnipotenza.

Il potere della Cina si è esteso, ben oltre la sfera geopolitica di riferimento, costruendo un’immensa area geoeconomica d’influenza, diventata suggestiva nell’era dei dazi di Trump. Puntando sulla silkbeltroad, la nuova via della seta, dopo essersi radicata in Africa, la Cina ha messo i piedi nel Mediterraneo ed ha aperto corridoi commerciali nei paesi dell’Eurasia, mentre grazie al gruppo dei BRICS sta dialogando con il Sudamerica. La posizione irriducibile di Pechino sul futuro di Taiwan, ribadita il primo agosto in occasione dei 78 anni delle forze armate cinesi, contro qualsiasi velleità indipendentista dell’isola, dopo imponenti esercitazioni militari prossime alle coste taiwanesi, non sembrerebbe configurare una guerra imminente: c’è la consapevolezza del rischio di un wargame epocale, meglio una soluzione concordata con Taipei. Ma sulla prospettiva di un accordo, potrebbe allungarsi proprio l’ombra minacciosa di Trump. La marina americana a sostegno dell’indipendenza di Taiwan, che incrocia al largo delle sue coste, di fatto blocca da sempre le rotte marittime strategiche e di interesse economico per la Cina a sud del suo mare, l’ennesima cintura oltre quella terrestre, che ne moltiplicherebbero la potenza mondiale a danno degli Stati Uniti.

Con l’arrivo del tycoon, l’ossessione cinese per gli americani si è esasperata. Tra l’altro, sono appena cominciate le esercitazioni dell’aeronautica militare giapponese, che sta testando i caccia Stealth F35B nel sud-ovest del paese, appena acquistati dagli Stati Uniti. L’accordo nippo-americano prevede per cominciare un investimento di quattro miliardi di euro e spiccioli per 42 velivoli. A seguire, Trump è riuscito a convincere il Giappone ad aumentare sensibilmente la sua spesa annuale in armamenti, facendone il terzo paese al mondo per investimenti militari dopo gli stessi Stati Uniti e la Cina. Lo scenario resta complesso. Il Risiko continua. Come si può parlare di pace?

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