politica
Arrivano le regionali, ma di programmi non c’è alcuna traccia
E dire che cose da fare, meglio anche rifare, ce ne sono tante, tantissime...
Ad ottobre, presumibilmente, ma di certo nell’anno, i cittadini di Campania, Marche, Toscana, Puglia, Veneto e Valle d’Aosta saranno chiamati ad eleggere i loro presidenti di Regione. Il tutto, con il Veneto, pretendente del terzo mandato, con la destra che si misurerà con «il popolo delle moeche», lasciando capire se è Zaia a stravincere oppure la contrarietà alla sinistra.
Un test importante per il Mezzogiorno, che vede due Regioni con poco meno di 10 milioni di abitanti e insediamenti metropolitani tra i più importanti del Paese, simbolo italico nel mondo. Non solo, con Comuni che impensieriscono per la messa in pericolo dell’ambiente e della occupazione, per territori inquinati sino alle soglie dell’inferno, a causa di delinquenziali continuativi sotterramenti di materie tossiche. Ma in siffatte regioni è emergenza anche in termini di bonifica sociale, con vasti settori delle istituzioni territoriali in mano alle più tradizionali mafie, che reclutano i destinatari dell’abbandono politico e fanno «cultura» nei ceti giovanili. Questi ultimi purtroppo arrivati alla consapevolezza di non trovare alternative ovvero attratti dalle narrazioni che inondano la produzione cinematografica in genere. Insomma, il risultato è: che Gomorra vince e l’onestà familiare dei poveri del Sud, campioni di emigrazione per necessità, perde spudoratamente.
Ciò che meraviglia è che ad oggi, a pochi mesi dal voto, prescindendo dai nomi che si fanno solo in Puglia e dalle carte che butterà sul tavolo De Luca, nessuno dice cosa volere fare di queste stupende regioni mediterranee.
E dire che cose da fare, meglio anche rifare, ce ne sono tante, tantissime. Piuttosto che impostare i rinnovi della legislatura regionale così nel proporsi per un voto consapevole si preferisce andare sul peggiore tradizionale. Sul nome che attrae, sul casato politico garante, sulla storia e la carriera maturata nei partiti. E no, la situazione attuale pretende altro. Lo pretende anche un’Ue che non c’è e che deve trasformarsi, divenendo soggetto politico-istituzionale.
Venendo alle due perle del meridione - campionesse nell’attrazione turistica, una più sulle bellezze naturali dell’altra che è invece strumentalmente attrezzata ad hoc nella ricezione di alto livello - è necessario che le stesse imparino ad affrontare la sfida con quelle che si presumono più avanzate (su tutte, il Veneto e la Toscana). I temi della disfida sono innumerevoli. Su tutti, la capacità legislativa e la programmazione, atteso che i controlli sono ancora da ben immaginare in tutte le 20 Regioni, al lordo delle due province autonome di Trento e Bolzano. La revisione costituzionale del 2001 ha stravolto - ribaltando la metodologia selettiva - le regole della legislazione concorrente, indicando esplicitamente le venti materie da esercitare dalle Regioni con lo Stato a fissare i principi fondamentali. Ma, invero, ha fatto molto di più, ha sancito de residuo (nel senso di materie non statali e non concorrenti) una serie (quasi) innumerevole di tematiche normative. Se ne contano ben oltre trenta che riguardano, tra le altre e in rigoroso ordine alfabetico: acque minerali e termali; agricoltura; artigianato; assistenza sociale e scolastica; camere di commercio; commercio, fiere e mercati; edilizia; energia (autoproduzione e profili di interesse locale); formazione professionale; industria; lavori pubblici e appalti; miniere, risorse geotermiche, cave e torbiere; ordinamento e organizzazione regionale; politiche dell’occupazione; polizia amministrativa regionale e locale; spettacolo; trasporti e viabilità; turismo e industria alberghiera; urbanistica.
A ben vedere un mare magnum di competenza legislativa regionale esclusiva, sino ad oggi in gran parte sprecata per migliorare le performance amministrative territoriali, molta della quale da mettere a terra nella complementarietà di quella concorrente. Basti pensare alla salute, istruzione e alimentazione (concorrenti) quanto siano bisognose di integrarsi con le materie esclusive delle Regioni afferenti alle acque termali; all’agricoltura, all’assistenza, al commercio; all’edilizia, ai lavori pubblici e agli appalti; all’occupazione; ai trasporti e viabilità; e infine all’urbanistica. Di tutto questo, poco o nulla, specie nel Sud, ove la legislazione, peraltro scritta di frequente malissimo, ha avuto cura più degli interessi particolari che generali, trascurando diritti e occasioni di successo.
Il progetto politico di un candidato alla presidenza di una Regione deve pertanto contenere elementi segnatamente caratterizzanti, sui quali capitalizzare il consenso, privo delle fasi del ballottaggio. Più specificatamente, deve ben chiarire la sua programmazione per il quinquennio, e la sua voluntas legislativa, trasformativa della macchina regionale e garante degli esiti di una maggiore esigibilità dei diritti di cittadinanza, di quelli civili e sociali. Non solo. Ogni candidato a «governatore» ha l’ineludibile dovere di riaffermare ogni modifica utile al modello storico della burocrazia regionale, spesso influenzata da tentativi, andati a buon fine o meno, di corruzione e da influenze mafiose. Deve, infine, scandire le modalità della sua rinnovata rete dei controlli e, se vogliamo, pensare ad una cura speciale del bilancio, quasi sempre «aggiustato», assistito da quello demografico, senza il quale è impossibile ben prevedere le priorità. Non fare tutto ciò in tempo utile alla pronuncia popolare è delitto «politico». È violazione della democrazia partecipata.