politica

Mercato e coscienza nelle urne: resistere al cinismo per salvare la democrazia

domenico santoro

Siamo ancora in una democrazia - nel senso nobile del termine - o ci stiamo progressivamente adattando a una nuova forma di governo, più elegante ma non meno pericolosa?

Se vendi il voto, è peccato veniale; se lo compri, è reato. Sembra questa la nuova regola non scritta che emerge da recenti sviluppi giudiziari.

D’ora in avanti, si apre un precedente inquietante: da un lato si assolvono moralmente - se non giuridicamente - tutti coloro che «hanno le bollette da pagare» o qualche grammo di polverina da acquistare; dall’altro si inchiodano alla gogna penale i politici che quei voti li comprano. Ma in questa industria del crimine non ci sono solo i politici corruttori. Ci sono anche i procuratori del consenso: a volte comitati elettorali camuffati da circoli della birra, altre volte vere e proprie organizzazioni criminali, ben strutturate e ramificate. La strategia della magistratura inquirente e requirente è chiara: ricalca il modello usato contro la mafia. Il pentitismo. Chi parla, chi denuncia, chi confessa, potrà contare sulla clemenza dei giudici. Chi tace, invece, sarà parte del sistema. Machiavelli docet.

In questo contesto, parlare di educazione civica, di esercizio della cittadinanza o persino di politica rischia di diventare un esercizio retorico, se non addirittura ipocrita. Ma forse è proprio per questo che vale la pena provarci. Perché il diritto di voto, oggi svilito e svenduto, è stato in passato una conquista pagata a caro prezzo. Non è sempre esistito. Non è stato «gentilmente concesso». È nato nella lotta: lotta di classe, di genere, di emancipazione.

Nell’Ottocento erano pochi, pochissimi, a votare: i proprietari, gli istruiti, i maschi. Le donne hanno dovuto attendere la metà del Novecento. In tanti casi si è ottenuto il diritto di voto solo dopo averlo conquistato con la propria vita o dopo aver attraversato guerre, dittature, emarginazione. Ecco perché il voto non è solo un atto politico. È, prima ancora, un fatto etico. È l’espressione della propria dignità di cittadino, è la possibilità di incidere sul destino comune. È la forma più elementare ma anche più sacra di partecipazione alla polis.

Ma cosa resta oggi di tutto questo? Siamo ancora in una democrazia - nel senso nobile del termine - o ci stiamo progressivamente adattando a una nuova forma di governo, più elegante ma non meno pericolosa? Una plutarchia, potremmo dire, dove a decidere non sono più i cittadini ma i padroni dell’economia e della comunicazione. Dove i candidati più votati non sono i più capaci ma i più finanziati. Dove i magnati della finanza finanziano campagne, condizionano programmi, orientano agende. Dove gli algoritmi dei social stabiliscono ciò che merita attenzione e ciò che può essere ignorato. Dove la politica a portata di like ha sostituito il dibattito con la rissa, la riflessione con il meme, la complessità con la polarizzazione.

A questo si aggiunge un fenomeno altrettanto inquietante: quello delle società di comunicazione politica che non fanno mistero del proprio operato. Quelle che, invece di limitarsi a offrire una consulenza discreta e professionale, sbandierano sui social le vittorie elettorali dei propri clienti come fossero trofei di caccia. Non conta più il programma, l’ideale o il progetto per la città. Conta «chi ti comunica», chi gestisce la tua immagine, chi ti inserisce nel flusso narrativo dominante. I sindaci vincenti diventano così il prodotto finale di un’operazione di marketing, più che l’espressione di un consenso ragionato.

Un esempio recente, e clamoroso, è quello di Massafra, dove il dibattito elettorale si è appiattito su due domande a dir poco imbarazzanti: può essere sindaco di una città chi non vi è nato? O chi non è donna? Ecco il livello. Non un confronto su sviluppo, ambiente, welfare, fiscalità, cultura o lavoro. Ma un cortocircuito identitario, confezionato per piacere, dividere, generare engagement. Non politica, ma propaganda riuscita. In questo contesto, vincere significa «funzionare»: funzionare sui social, funzionare nei sondaggi, funzionare nelle identità di gruppo - che siano identità di genere, di etnia, di appartenenza ideologica. Ma una politica che si limita a funzionare smette di pensare. E smette di servire.

Ecco allora perché parlare di voto, oggi, è ancora più urgente. Non come gesto rituale. Ma come atto di resistenza. Resistenza contro il cinismo, contro l’indifferenza, contro l’idea che tutto si possa comprare, anche la libertà. Finché ci sarà qualcuno che si rifiuta di vendere il proprio voto, ci sarà ancora speranza di ricostruire una democrazia vera. Una democrazia fatta di idee, non di follower.

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