il voto
Altro che quorum e «spallate»: riecco la sinistra-Tafazzi che si impicca ai Referendum
I referendum diventano banco di prova non della democrazia in Italia, che dovrebbe far decidere al popolo, ma del governo di turno che dovrebbe rappresentarlo
La condanna della sinistra cala dal cielo, inesorabile ogni volta che viene pronunciata la parola magica: referendum. Oggi con Schlein - come ieri con Renzi - il tonfo della partecipazione ai seggi per votare i cinque quesiti (complessi, arzigogolati… li capiva solo Landini) dimostra quanto auto-immolante, tafazzista (nel senso di Tafazzi, quello che si dava i colpi sui testicoli con la bottiglia) e inutilmente suicida sia la scelta di impiccare i referendum alla tenuta dei governi o al consenso elettorale.
Un vizio antico, che non riguarda solo la tenuta dei governi avversari quando si è all’opposizione, come oggi si tenta col centrodestra a trazione Meloni, ma anche la tenuta dei governi «amici», come accadde appunto nel 2016 con Renzi sulla vicenda Tap, trivelle e Costituzione. Lui, leader con consensi che nemmeno De Gasperi vantava all’alba della Repubblica democratica e anti-monarchica del ‘46, si immolò come Cristo annunciando che si sarebbe dimesso se gli italiani si fossero espressi contro la riduzione dei costi della politica. E il Paese si espresse con un sonoro «no», tanto da costringere il premier in carica al saluto finale. Oggi, stessa sorte: Elly annuncia il rovesciamento del governo di destra in caso di quorum, ma il quorum non arriva. La destra di Meloni ne esce più forte di prima, gli italiani si dimenticano delle bollette, delle banche arricchite con i loro soldi, della fame che c’è in giro nonostante l’aumento dei contratti di lavoro e tutti passano a discutere di come sopravviverà il Pd, dilaniato tra la segretaria che si immola ai referendum e i malpancisti alla Bonaccini (noti come «riformisti») che ne chiedono la testa dopo la sconfitta alle urne referendarie.
I referendum. Sono forse il momento più alto della Costituzione democratica, quello in cui milioni di italiani dovrebbero decidere del loro futuro. E invece diventano come la pelle degli organi sessuali maschili: li tiri dove vuoi, sul futuro di un governo che non è nemmeno traballante o sulla possibile riscossa di un’opposizione debole e inesistente. L’importante è che non si discuta mai del merito, dei quesiti cui rispondere barrando facilmente una crocetta (No o Sì) a seconda di come la si pensi. I referendum diventano banco di prova non della democrazia in Italia, che dovrebbe far decidere al popolo, ma del governo di turno che dovrebbe rappresentarlo. Governo che ogni volta ne esce o vittorioso (come in questo caso) o sconfitto (come nel caso di Renzi), perché impiccato alla prova dell’adesione. Il Pd non ha avuto nemmeno il tempo di festeggiare la vittoria di Taranto dopo quella di Genova: doveva occuparsi di giustificare al mondo che l’appuntamento con la storia, i referendum, era finito nell’oblio di un misero 30% di partecipazione. E la destra al governo, contraria al referendum, doveva passare il tempo non a giustificarsi delle amare sconfitte subite in territori chiave (capoluoghi di provincia, test formidabili del sentimento che circola nel Paese dei mille campanili) ma ad applaudire per la sconfitta dell’avversario sui cinque quesiti referendari. Sconfitta abbondantemente annunciata, vista la scarsa affluenza alle urne che c’è ad ogni chiamata al voto degli italiani… altro che 50% + 1.
Ora, se i referendum venissero lasciati in pace per quelli che sono e non diventassero ogni volta un ring tra destra e sinistra o tra sinistra e sinistra e destra e destra, a seconda dei casi, probabilmente si capirebbe meglio perché gli italiani partecipano o meno alla «chiamata». Se gli dici che l’acqua non è più pubblica, come nel 2011, e dunque la devono pagare a un privato, loro corrono a votare per fermare la catastrofe. Se gli dici, invece, che bisogna regolarizzare i migranti dopo 5 anni e non 10 e loro sotto casa, ogni giorno, hanno un esercito di diseredati, naufraghi, reietti, clochard, ladri e matti che se le suonano di santa ragione (accade ogni sera in piazza Umberto a Bari o alla stazione Termini, non solo a Los Angeles) probabilmente dicono: «Ma chi me lo fa fare?». Tutto qui. Il quesito non è se Meloni piace o meno al governo o se Schlein può o meno fare il capo di governo quando le toccherà, come pure sembrava questo appuntamento, ma una domanda (possibilmente semplice) che chiede una risposta. Piaccia o no agli astensionisti di destra o ai partecipanti di sinistra. E il merito, almeno di 3 su 5 quesiti, non lo ha capito nessuno, tranne Landini.
La soglia del 50% significa che due terzi dell’intero Paese (esclusi i minorenni che non votano) dovrebbe esprimersi andando sotto il sole alle urne. Una barzelletta in tempi nei quali al governo ci va chi raccoglie circa il 20% dei consensi di un terzo degli aventi diritti al voto nel Paese. Una presa in giro di tutti, a cominciare da quelli che alle urne non ci vanno più da anni perché tanto «decidono tutto a Roma, nei partiti, Porcellum o Rosatellum poco cambia». Dunque, forse, la riflessione sui meccanismi di legge del referendum andrebbero rivisti. Ad esempio, innalzando la soglia delle 500mila firme (su 56 milioni di italiani…?!) necessarie all’indizione sottoposta al giudizio della Consulta. O obbligando i promotori ad un numero contingentato di quesiti da sottoporre alla votazione popolare: cosa c’entra la precarietà del lavoro e l’insicurezza nei cantieri dei subappalti con la cittadinanza ai migranti?.
Ecco, già questo sarebbe forse un nuovo inizio per i tanti, vituperati, referendum. Farebbe chiarezza a chi deve andare a votare e a chi chiede quel voto, magari non pensando agli «effetti politici» ma alle cause che lo richiedono. E ai poveri referendum, forse, verrebbe restituita maggiore dignità costituzionale, invece di essere tirati come la pelle dei c… ad ogni giro di governo.