L'analisi

Meloni e il futuro dell’Ue: tra sì e no resta solo la pipa di Magritte

Francesco Alicino

Turbata libertà degli incanti. Nulla e nessuno vieta di leggere questa frase come incipit poetico: verso scritto sui fremiti di un’adolescenziale delusione d’amore

Turbata libertà degli incanti. Nulla e nessuno vieta di leggere questa frase come incipit poetico: verso scritto sui fremiti di un’adolescenziale delusione d’amore. Le regole vigenti in una comunità di pensanti portano però a dire che il significato di quel testo deve essere desunto dal relativo contesto. Quello del codice penale italiano nel quale, attraverso l’equivalenza fra gli incanti e la vendita a gara di beni mobili o immobili, s’imprime il reato di turbativa d’asta (art. 353). Basterebbe questo per svelare i retroscena delle dichiarazioni del Presidente Meloni a proposito del Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorno «per un’Europa libera e unita». Se non fosse che, nell’odierna arena politica, inganni e trucchi verbali riescono naturali.

Uno è stato imbastito ad arte alla Camera dei Deputati il 19 marzo 2025, quando la leader di Fratelli d’Italia pesca parole ed espressioni da un testo scritto ottantaquattro anni prima nel contesto carcerario dell’isola di Ventotene. Dove i tre autori si trovavano non in vacanza, ma su ordine e per volontà di un ridicolo imbonitore e furioso capopopolo, foriero di catastrofi terrificanti: dal modo con cui folle di tifosi lo adoravano trapelano le miserie di un Paese da sempre incline a misure stupidamente e tragicamente servili. La conferma a questa tendenza giunge dai pieghevoli cortigiani al servizio dell’attuale Presidente del Consiglio, sempre più canonizzata nelle vesti di defensor et protector degli interessi italiani contro l’inferno illiberale dei padri del Manifesto di Ventotene e degli epigoni dell’attuale centrosinistra. La sortita del 19 marzo può così serenamente accomodarsi fra le casistiche meloniane che, fungendo da trappole mediatiche, divorano i concorrenti non all’altezza di una opposizione seria. La quale, persa in analisi storico-esegetiche e inutilmente beatificanti, non s’accorge delle indifendibili contraddizioni insite nell’azione governativa, soprattutto se riferita all’atteggiamento da tenere nel consesso sovrastatale e rispetto al futuro dell’Europa unita.

L’esempio è fornito dall’intervento che la stessa Meloni ha proferito al Senato della Repubblica il giorno prima. Quando, rispondendo al camaleontico redivivo Pier Ferdinando Casini e all’antieuropeista Claudio Borghi, ha invocato «una nuova Europa politica», senza che ciò determini «ulteriori cessioni di sovranità», per cui la Presiedente e la sua maggioranza esprimono «assoluta contrarietà». Un’affermazione, questa, che non regge alla prova dei fatti e dell’analisi logica: non essere d’accordo sulla cessione di sovranità porta a sostenere lo stallo, l’inerzia, l’inefficienza, l’insostenibilità dell’attuale situazione. Porta cioè non a un nuovo soggetto politico, bensì alla morte dell’Unione per consunzione. Come, del resto, dimostrano gli ultimi tragici eventi segnati da crisi militari, climatiche, energetiche, tecnologiche, immigratorie e commerciali, di fronte alle quali non si capisce come possano singoli paesi europei difendere i propri interessi. Tanto più nel mare tempestoso dell’agone mondiale, dominato da vecchi e nuovi agglomerati economici, finanziari, bellici e digitali. A cominciare da quelli afferenti agli Stati Uniti d’America guidati da un Presidente che, a detta della leader italiana, «ha forse meno competenze dell’Ue»: dimostra con questo di avere scarsa conoscenza dell’uno e dell’altro sistema normativo.

Ad ogni modo, la fine dell’Unione si porrebbe coerentemente in linea con l’impostazione degli Stati sovrani ante processo di integrazione. Fatto sta che, in assenza di coraggio politico e in presenza di esigenze propagandistiche, questo obiettivo non è apertamente sostenuto dai sovranisti di casa nostra, se non quando all’opposizione o alle prese con piazze gremite di estatici fedeli. E ciò spiega le fumose posizioni che, evocando satiriche posture di veltroniana memoria, s’improntano alla politica del «ma anche»: sono sovranista, ma anche europeista; sono europeista, ma anche nazionalista contro l’Europa unita; sono con Trump e Musk che impongono dazi all’Ue «nata per fregare gli USA», ma anche a favore dell’Ue che si trova a fronteggiare gli attacchi provenienti da oltreoceano da noti miliardari morti di fama; sono con la Lega contraria al riarmo e al Libro bianco sulla difesa comune di Ursula von der Leyen, salvo poi in Europa votare a loro favore. Il che si riflette perfettamente nella risoluzione parlamentare (n. 6-0016) approvata dalla maggioranza di centrodestra: un testo tanto vago quanto pieno di verbose acrobazie che, nella rovente atmosfera fomentata dall’abilità comunicativa della Presidente, riescono impunemente a celare le inconciliabili posizioni di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega rispetto al comportamento da tenere nel Consiglio dell’Ue del 20-21 marzo 2025. L’esatto contrario delle forze di opposizione che, con altrettanta impudenza, continuano a esaltare le proprie differenze votando ben sei risoluzioni.

Insomma, in un contesto ornato da pifferi, grancasse e venditori di ombre, il dibattito politico sembra ricalcare la severa ironia di René Magritte. Quella che, negando il criterio di equivalenza tra il disegno (una pipa) e l’affermazione (questa non è una pipa), sponsorizza il tradimento di immagini, idee e parole.

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