L'editoriale
Se Massimo Cacciari indaga nella concretezza della metafisica
Cacciari è senza dubbio l’ultimo grande pensatore strettamente filosofico-occidentale che vi sia in circolazione, che pone sempre nei suoi testi il problema, quel problema: il passaggio che va dal «semplice» amare la sophìa a quello che fa dell’amante un autentico sophòs
In molti modi e con diverse ragioni si è parlato più volte di crisi, di fine e di morte della metafisica, anche se, come notava Emmanuel Lévinas, la fine di essa è la nostra metafisica inconfessata, perché paragonabile ad una confessione. Dietro questa strana vicenda, in realtà, c’è il paradosso – e Kant l’aveva individuato nell’impossibilità di essere scienza ma di cui, nello stesso tempo, l’uomo non può fare a meno – che si rivela già nel suo originario groviglio semantico: metà ta physikà; una parola la cui nascita come termine unico è pressoché sconosciuta, ma ha coinciso apertamente e segretamente con la filosofia stessa, assumendo significati vari e contrastanti per opera anche del pensiero antimetafisico.
In questo paradossale nodo storico, tenendo presente anche il duplice senso di meta, fatto di eclissi e tramonti, di cammini sotterranei e di continue riemersioni, la metafisica riappare oggi con la pubblicazione del poderoso e fluviale testo di Massimo Cacciari (Metafisica concreta, Adelphi ed.), discusso ieri all’Ateneo di Bari e anche a Foggia a Palazzo Dogana, poi a Venosa e a Lecce, nel quale egli mette a nudo ancora una volta la sua grandezza (e solitudine) di pensatore e l’impotenza della filosofia contemporanea a essere, finalmente e davvero, sophìa. Ed è proprio questo il centro di gravità di quest’ultima prova, che «vanta» anche una velenosa stroncatura (quella di Alfonso Belardinelli), di quest’ultimo tentativo – magistrale, s’intende – di dire il contenuto stesso della filosofia e, di qui, il fine ultimo dell’interrogare dell’uomo.
Cacciari è senza dubbio l’ultimo grande pensatore strettamente filosofico-occidentale che vi sia in circolazione, che pone sempre nei suoi testi il problema, quel problema: il passaggio che va dal «semplice» amare la sophìa a quello che fa dell’amante un autentico sophòs. Metafisica concreta è un’espressione che Cacciari mutua dal titolo di un libro del famoso pensatore e matematico russo Pavel A. Florensji (1882-1937), che lui giudica il più grande fra i russi e al cui itinerario aveva già dedicato alcune pagine dei suoi Icone della legge (1985) e L’angelo necessario (1986), e arriva dopo più di trent’anni di ricerca e di studio consegnati nei libri Dell’Inizio (1990), Della cosa ultima (2004) e Labirinto filosofico (2014).
Questa nuova opera di Cacciari omaggia, dunque, esplicitamente sin dal titolo la tensione teoretica del progetto di Florenskji, rimasto in gran parte inascoltato: costruire un dialogo fra le scienze, dopo le rivoluzioni epistemologiche del Novecento, e la metafisica, intesa come capacità di riconoscere i nessi, le analogie, alla ricerca di quei princìpi che diano il senso all’operare delle scienze. Un rapporto fra scienza e filosofia che, al modo di Florenskji, non segue né la direzione della subordinazione gerarchica, che si concluderebbe in un riduzionismo (la filosofia che si legittima attraverso criteri di dimostrazione ripresi dalle scienze), né quella di una totale estraneità o separazione, che renderebbe la filosofia una fede senza sapere se non un vuoto esercizio retorico.
La metafisica, secondo Cacciari, è lo studio che cerca di mostrare come lo stesso àmbito della conoscenza fisica, ivi compresa la psiche, implichi qualcosa che eccede la dimensione puramente fisica e biologica; non è un’astratta speculazione, è la riflessione, appunto, sul carattere propriamente metafisico della realtà stessa, dal momento che ogni cosa fisica rimanda ad un fine non osservabile, non calcolabile. Lo sguardo metafisico non intende andare al di là, non cerca un mondo dietro il mondo, ma vuole cogliere i rapporti a cui i diversi discorsi scientifici, proprio nel loro misurare e nel loro mettere ordine, alludono. Insomma, la metafisica è la scienza degli enti in quanto tali, sottratti alla loro contingenza.
In questa metafisica concreta, in fondo, sembra risuonare un’idea di verità che trova in un breve riferimento etimologico di Florenskji (ancora!) la sua chiave: Istina («verità»), che è vita vera dell’essente, non risolvibile nelle forme del suo divenire. La domanda metafisica, allora, è la domanda di quell’ente atopos che cerca, nelle trame che costruisce e si dispiegano attorno al suo errare, la possibilità di costruire nuove strade, là dove altri riconoscono solo deserti o boschi e radure non attraversabili.