L'opinione

Appalti pubblici e salario minimo: c’è qualcosa che si muove contro i rischi di deterioramento delle tutele sociali

Roberto Voza

La crescente rilevanza strategica dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture è un dato acquisito, impegnando oltre 250.000 autorità pubbliche nei Paesi U.E., per una spesa complessiva pari a circa 2.000 miliardi di euro

La crescente rilevanza strategica dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture è un dato acquisito, impegnando oltre 250.000 autorità pubbliche nei Paesi U.E., per una spesa complessiva pari a circa 2.000 miliardi di euro. Ne sono coinvolti settori essenziali come l’energia, i trasporti, le infrastrutture, la gestione dei rifiuti, la protezione sociale, la salute, la difesa, l’istruzione, ecc., con un significativo impatto occupazionale.

Per una pluralità di ragioni, il settore degli appalti pubblici presenta un alto rischio di deterioramento delle tutele sociali e, in particolare, di livellamento verso il basso dei trattamenti economici applicati ai lavoratori delle imprese appaltatrici.

In Italia il recente codice dei contratti pubblici (art. 11, d.lgs. n. 36/2023) prescrive l’inserimento nei bandi di gara di clausole che impongano “l’applicazione dei contratti collettivi nazionali e territoriali di settore”, tenendo conto di quelli stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, “il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”. Tale aspetto costituisce elemento di valutazione della congruità, serietà e sostenibilità di un’offerta che appaia anormalmente bassa. Non è specificato, però, cosa debbano fare le stazioni appaltanti (ossia le pubbliche amministrazioni) qualora tali contratti prevedano retribuzioni insufficienti.

Sappiamo che la Cassazione (in un sestetto di sentenze dello scorso ottobre, seguite da una interessante pronuncia del Tribunale di Bari) ha messo in discussione l’autorità salariale del contratto collettivo (anche se siglato da organizzazioni dotate di ampia rappresentatività), qualora esso preveda un trattamento retributivo non conforme al principio della giusta retribuzione (art. 36 Cost.).

Dal canto sua, la giurisprudenza amministrativa è coraggiosamente giunta a ritenere che “anche l’amministrazione abbia un potere di sindacato diretto del CCNL di lavoro proposto al fine di accertare, con atto motivato, che il livello stipendiale proposto sia conforme all’art. 36 Cost. in quanto norma costituzionale di applicazione immediata e diretta”. Ciò serva a contrastare “una forma di ‘dumping’ ad un tempo lesiva del leale gioco concorrenziale fra imprese e dei diritti sociali” (TAR Lombardia, 28 novembre 2023: si trattava, in quel caso, del servizio di accoglienza dei visitatori nelle sedi museali del Comune di Milano).

Si tratta, dunque, di un evidente recepimento dell’orientamento della Cassazione in tema di salario minimo.

Ma c’è da chiedersi se si possa continuare a gestire la questione salariale solo sul terreno del contenzioso giudiziario.

Abbiamo letto di una recentissima mozione che sarà presentata in seno al Comune di Foggia, che impegna – nelle concessioni e negli appalti banditi dal Comune e dalle società controllate – a imporre alle imprese partecipanti l’applicazione del contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente, e in ogni caso una retribuzione non inferiore a 9 euro lordi l’ora. Tutto ciò in attuazione dell’art. 36 Cost. e dell’art. 11 del Codice dei contratti pubblici.

Si vuole così impegnare la pubblica amministrazione a contrastare il fenomeno del lavoro povero e a stimolare un’idea di efficienza organizzativa che non passi attraverso l’abbattimento del costo del lavoro (organizzare meglio non significa pagare meno: l’equazione è del tutto impropria).

Del resto, se l’amministrazione è chiamata – alla luce della citata giurisprudenza amministrativa – a verificare il rispetto dell’art. 36 Cost., è evidente che tale verifica possa e debba essere compiuta già in sede di emanazione del bando, in modo da prevenire l’eventuale contenzioso lavoristico promosso dai lavoratori sottopagati.

Seguiremo le sorti della proposta foggiana, ove dovesse essere accolta. Resta il problema della modalità di individuazione di una soglia minima invalicabile (i famosi 9 euro), in assenza di un parametro legale.

Certamente, la proposta foggiana ha il merito di continuare a mantenere viva l’attenzione su una questione che il legislatore nazionale continua ad evitare.

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