la riflessione

Quel gran pasticcio ... del nuovo Patto di (in)stabilità e perplessità

Guglielmo Forges Davanzati

Oltre un anno di negoziazioni in Europa hanno prodotto un esito decisamente deludente: non si è fatto tesoro degli errori del passato

L’impostazione del nuovo Patto di Stabilità e Crescita (PSC), sospeso dal 2020 per la crisi sanitaria, è molto discutibile, sia per le incoerenze interne, sia perché difficilmente potrà raggiungere gli obiettivi che, implicitamente o esplicitamente, si pone.

Le criticità sono sostanzialmente queste.

1) Il nuovo PSC è non coerente al suo interno. Si supera Maastricht, che prevedeva criteri unici per tutti i Paesi membri /3% del deficit/Pil e 60% del debito/Pil) e si introducono percorsi personalizzati per singoli Paesi, facendo proprio un approccio di medio termine, nel quale si propone un aggiustamento fiscale di durata quadriennale (prorogabile a sette anni) monitorato dalla Commissione europea. Dovrà essere ridotta la spesa primaria netta, ovvero la spesa pubblica al netto delle spese discrezionali, del ciclo economico e degli interessi da pagare sui titoli del debito pubblico. I Paesi con debito elevato, superiore al 90%, come l’Italia, dovranno garantire percorsi di riduzione del deficit più incisivi (1.5% del Pil invece del’1%) e si terrà conto del costo del debito per effetto delle politiche monetarie della BCE. Si prevede un «braccio preventivo» (la contrattazione con la Commissione) e uno «correttivo» (le sanzioni), a garanzia del rispetto dei vincoli fissati. La mancanza di coerenza viene rilevata in questa constatazione.

Il principio di base sul quale è stato redatto si basa sull’idea che occorra differenziare i percorsi di rientro valutando le condizioni macroeconomiche per i singoli Paesi. Al tempo stesso, però, sono stati re-introdotti criteri quantitativi validi per tutti. Alla prova della logica, l’impianto fa difetto. Se, infatti, fosse rispettato il primo criterio, non avrebbe senso imporre un vincolo quantitativo uniforme nei casi di debito/Pil maggiore o inferiore al 90%. Non è chiaro, in altri termini, se il modello è basato su automatismi o su discrezionalità.

2) Vi è poi un secondo motivo di perplessità, che deriva dal fatto che l’obiettivo dichiarato, nella redazione del nuovo Patto, era la semplificazione delle regole fiscali: ciò che è venuto fuori è un’ulteriore complicazione derivante dall’eccesso di regolamentazione e di quantificazione. Sarà utile, a riguardo, ricordare che già i criteri di Maastricht, secondo la nota definizione di Romano Prodi, erano «stupidi», essendo poggiati su previsioni inverosimili di crescita economica dell’eurozona. I vincoli quantitativi, infatti, già nel 1992, non poggiavano su alcuna certezza scientifica, così come quelli della versione attuale del Patto. Non viene poi assolutamente presa in considerazione l’ampia e crescente letteratura scientifica che mostra come gli investimenti pubblici siano un fondamentale fattore di crescita. Contrariamente, infatti, alla visione dominante per la quale se uno Stato si indebita trasferisce l’onere fiscale alle generazioni future (tesi che è a fondamento del PSC nella prima e nella seconda versione), viene fatto osservare che gli investimenti pubblici – si pensi alla formazione e alla ricerca o alla transizione ambientale – accrescono lo stock di capitale disponibile per il futuro, dunque il benessere materiale dei nostri discendenti. Sarebbe stato più saggio assoggettare alle regole di riduzione della spesa la sola spesa corrente e non considerare in questo calcolo le spese in conto capitale (è la cosiddetta «regola d’oro» della politica fiscale).

Oltre un anno di negoziazioni in Europa hanno prodotto un esito decisamente deludente: non si è fatto tesoro degli errori del passato, avendo ormai chiaro che l’Europa generata da Maastricht ha avuto bassi tassi di crescita e che i suoi stessi obiettivi di riduzione del debito non sono quasi mai stati rispettati. Dal punto di vista politico, il Governo Meloni ha perso la contrattazione: avrebbe voluto criteri più flessibili, con lo scomputo di alcune tipologie di investimento pubblico (in primis, per la difesa) dal calcolo del deficit. I problemi sono in larga misura spostati negli anni successivi, così come le decisioni impopolari che il PSC impone per i futuri governi, soprattutto quando avrà termine il PNRR (2026) e occorrerà procedere a drastici tagli di spesa.

Si è confermata essere un’Europa della diffidenza fra Stati, della sfiducia reciproca, fondata sul rigore tedesco e sulla quantificazione dei limiti di spesa. Imporre vincoli quantitativi – come si è fatto - ha senso solo in vista della convergenza fra Paesi su valori di deficit e debito sufficientemente uniformi da essere la precondizione per l’unione fiscale. Ma questa prospettiva viene allontanata inevitabilmente dalla contestuale decisione di allargamento dell’Unione (Turchia, Macedonia, Albania e altri in corso d’esame) a Paesi con parametri molto divergenti da quelli che la compongono attualmente. Più, infatti, si cercano convergenze fra i Paesi membri, più diventa difficile motivare l’adesione di altri. Paul de Grawe, uno dei massimi studiosi dell’UME, rileva, a proposito, che il problema fondamentale dell’Unione consiste nella sua «variabile profonda»: la sostanziale assenza di un sentimento collettivo di appartenenza alla stessa nazione.

Privacy Policy Cookie Policy