L'opinione
Giulia e Vincenza, le inaccettabili differenze del dolore
A Venezia, l’altro giorno, questura e prefettura hanno ammesso che quelli di Giulia sarebbero stati nei fatti dei funerali di Stato. E così è andata. Ma perché a Padova e non anche ad Andria, a Domodossola, a Palermo e nelle altre cento città finite in questa triste contabilità di morte?
Giulia Cecchettin è stata ammazzata l’11 novembre dall’ex fidanzato in una zona industriale di Venezia. Una settimana dopo Vincenza Angrisano è stata uccisa dal marito, in casa ad Andria, davanti ai figli piccoli. Due tragedie che hanno sconvolto l’Italia. Ma il funerale di Giulia, con 10mila persone, un presidente di Regione, un ministro e 100 sindaci è stato trasmesso ieri in diretta a reti unificate. Quello di Vincenza, lunedì ad Andria, ha avuto pochi secondi nei telegiornali nazionali. Anche nel dolore ci sono le classifiche, e questo è inaccettabile.
Il valore di una vita non può essere misurato, e non ce n’è una che valga più di altre. C’è un dramma dietro la fine ingiusta di Giulia così come di tutte le altre donne vittime di violenze mai giustificabili. Ma proprio per questo resta un sapore amaro di fronte alla scelta (volontaria? casuale?) di aver fatto di Giulia l’unico simbolo di tutto il male che si nasconde oggi dietro la porta di casa, nel non saper accettare un «no» alla fine di una storia. Lo diciamo per Vincenza perché questa differenza salta all’occhio per ragioni temporali, ma è un ragionamento che vale per tutte le altre Giulia e Vincenza che ci sono state e per quelle che ancora ci saranno, ognuna vittima di incalcolabile importanza.
A Venezia, l’altro giorno, questura e prefettura hanno ammesso che quelli di Giulia sarebbero stati nei fatti dei funerali di Stato. E così è andata. Ma perché a Padova e non anche ad Andria, a Domodossola, a Palermo e nelle altre cento città finite in questa triste contabilità di morte, dove ogni tragedia si chiude con cento righe in cronaca locale, una frettolosa lapide e un dolore destinato a restare privato non appena si spengono le telecamere. Vite sfruttate nelle trasmissioni del pomeriggio, raccontate con distillati di retorica attraverso lo spioncino della curiosità morbosa. E poi abbandonate per correre dietro al prossimo caso.
Tutti vorremmo che non ci fossero altre Giulia e altre Vincenza. Ed è proprio per questo che la classifica del dolore, oltre che sbagliata, appare anche controproducente. Non serve invocare quelle pene esemplari tanto in voga di questi tempi. Se davvero si vuole spegnere l’allarme sociale che a parole tutti dicono di voler combattere, dare l’impressione che ci siano casi più gravi di altri rischia di far passare un messaggio terribile: se vivi nel ricco Nord-Est, sei giovane, hai un padre illuminato che non invoca vendette ma usa la parola per curarsi le ferite, ecco che diventi simbolo dell’ingiustizia da combattere. Se muori ammazzata da un marito che non si rassegna nell’entroterra del Sud, con un lavoro precario, dopo che in ospedale non hanno capito a cosa andavi incontro e ti hanno bellamente rimandata a casa, allora accontentati dell’indignazione che resta e di essere dimenticata dopo una manciata di belle parole.