L'analisi

Web peggio del patriarcato: contro i femminicidi recuperiamo la cultura

Pino Pisicchio

Come si può non condividere lo sdegno e la riprovazione nei confronti di chi usa violenza contro le donne? Come si fa a non provare commozione e solidarietà umana per le ragazze uccise brutalmente da compagni tossici le cui menti tarate pensano di poter rivendicare un’ allucinata pretesa di diritti proprietari sul corpo delle loro sfortunate partner?

Come si può non condividere lo sdegno e la riprovazione nei confronti di chi usa violenza contro le donne? Come si fa a non provare commozione e solidarietà umana per le ragazze uccise brutalmente da compagni tossici le cui menti tarate pensano di poter rivendicare un’ allucinata pretesa di diritti proprietari sul corpo delle loro sfortunate partner? Non si può, infatti, perché nessuna persona, dotata dei requisiti minimi di umanità, potrebbe mai mancare di coltivare una giusta partecipazione al sentimento collettivo che ricorda le vittime.

In queste ore si è giustamente fatto l’invito - nelle scuole, nelle comunità, nelle assemblee cittadine - a rompere simbolicamente il muro del silenzio che molto spesso circonda i drammi delle donne abusate da uomini. Tutto bene; attenzione, però, a non lasciarci travolgere dal rumore e dalla retorica del gesto «dovuto» nella ricorrenza «istituzionalizzata», senza gettare uno sguardo un po’ più profondo in queste storie. Si tratta, infatti, di storie che, a furia di tramutarsi in materiale ghiotto dei talk show, vengono anestetizzate con la narrazione ripetuta - e perfino sceneggiata con attori professionisti- di un dramma vero che i media lasciano percepire come fosse una fiction. Ognuno può battersi il petto e persino versare una lacrimuccia il giorno della lotta alla violenza sulle donne, e poi? E gli altri giorni?

Si è fatto ricorso molto spesso all’affermazione secondo cui la persistenza di un «sentiment» collettivo caratterizzato in senso paternalistico sarebbe la concausa dei 106 femminicidi che si sono registrati quest’anno in Italia, secondo il Ministero degli Interni, all’altezza del 19 novembre, mentre invece casi di violenza sulle donne, non necessariamente con esito omicidiario, si verificherebbero in una misura pari ad uno ogni cinque ore, ci ricorda l’Osservatorio sui Diritti. Sono dati impressionanti che però meritano di essere approfonditi per capire, oltre l’ovvietà di psicologismi pret a porter, che cosa c’è dietro e come affrontare il fenomeno. Partiamo dai femminicidi. Non c’è dubbio che colui il quale compie un gesto brutale e premeditato è una persona che ha problemi psichiatrici importanti: abbiamo visto solo nei film le performance professionali di gente di ghiaccio che di mestiere fa il killer pagato per uccidere. Qui siamo di fronte a quadri psicologici del tutto diversi che incontrano, tuttavia, due tipologie particolari: da un lato uxoricidi che hanno una qualche confidenza con le armi.

Si tratta spesso di persone in età già adulta, che possiedono armi per motivi professionali o che comunque hanno il permesso di usarle. In questo caso tra l’omicida e la vittima c’è una distanza psicologica rappresentata, appunto, dall’arma da fuoco e non è raro che l’epilogo della triste vicenda sia anche il gesto suicidario del femminicida. La seconda tipologia degli assassini di donne appartiene alle generazioni più giovani: si tratta di coetanei delle vittime, spesso conviventi, e non è raro che si tratti della prima esperienza di rapporto a due. Questi giovani uomini, dalle personalità fragilissime, probabilmente poco hanno a che fare con il «modello paternalistico» che ha potuto condizionare i loro nonni: più probabilmente si tratta di persone con qualche difficoltà di socializzazione, che più volentieri si abbandonano al solipsismo della Rete. Per entrambe le tipologie di femminicidi, sarebbe fondamentale, piuttosto che evocare astratti sociologismi, fare più attenzione ai profili psicologici delle persone a cui si consente di usare le armi e, per i più giovani, porsi qualche domanda sul ruolo «pedagogico-consolatorio» della Rete, che agisce in sostituzione delle agenzie formative, come la famiglia e la scuola. La Rete, infatti, e non l’adesione a modellistiche patriarcali che probabilmente non riguardano più le nuove generazioni, ha un ruolo centrale nella distorsione della realtà e nella proposta di nuovi comportamenti ed eroi cui aderiscono le giovani e giovanissime generazioni.

La «poetica» della trap (una versione ancora più violenta e marginale del rap), tanto per capirci, che ha come protagonisti giovanissimi con cospicui curriculum di riformatori e galere, è tutta intrisa di violenza e di incitamenti in questo senso. Ma è così anche per l’attingimento ai rudimenti del sesso, a disposizione sullo smartphone attraverso un variegato catalogo di siti in cui non si spiega mica che tra due persone il consenso è la chiave del rapporto e non la prevaricazione di uno sull’altra. La weltanschauung che viene fuori dalla Rete è addirittura peggio della visione patriarcale, perché dentro il web la violenza diventa una necessità.

Allora, celebriamo questa importante giornata contro la violenza sulle donne, non come un rituale che allinea i discorsi patinati di politici ed esponenti delle istituzioni, ma come un momento di consapevolezza: per abbattere un muro di pregiudizio culturale occorre innanzitutto un ingrediente che oggi sembra scarseggiare: la cultura.

Privacy Policy Cookie Policy