La riflessione

Dall’astensionismo a Paola Cortellesi, la «polis» è al cinema

Enrica Simonetti

I populismi e il disimpegno hanno affievolito la voglia di partecipazione dell'homo videns, ormai eternamente incollato a Tik Tok

«Faccio un mestiere che gli italiani non vogliono più fare. Vado a votare». Questa amara battuta, circolata nei giorni scorsi come vignetta e come monologo surreale, fotografa una realtà sulla quale ci siamo poco soffermati e cioè il calo vorticoso di votanti, anche alle ultime amministrative. Pensate: è stato calcolato che ormai il partito del non-voto raggiunge il 40% e per chi volesse farsi un giro (drammatico) tra le cifre, pare che a partire dalle elezioni del 1979 l’affluenza alle consultazioni parlamentari abbia subito un progressivo e quasi continuo calo che l’ha portata dal 93,4% del 1976 al 63,8% del 2022.
È forse un «fenomeno» sul quale la politica dovrebbe riflettere di più, magari sottraendo un po' di tempo a quelle...

Appassionanti diatribe tra presunti aspiranti candidati, foriere di chissà quali futuri agguati dialettici ed elettorali.
Stanchezza? Disillusione? Disgusto? Generale indifferenza? Magari è un po’ tutto insieme. I populismi e il disimpegno hanno affievolito la voglia di partecipazione dell'homo videns, ormai eternamente incollato a Tik Tok. Le colpe sono di tutti e di nessuno, ma forse non c'è più neanche il tempo di andarle a cercare, perché ciò che serve è una forza propulsiva, capace di mobilitare intere generazioni alla non-astensione, alla partecipazione attiva.

Sì, catastrofi come il crollo degli ideali e le solitudini imperanti hanno coperto il bel volto dell'antica polis, che oggi è la piazza virtuale del web, dove ci sono tante idiozie ma c’è anche tanta partecipazione, che forse andrebbe «coltivata».
Quindi, perché piangere e basta? Un sussulto di nuove idee forse ci sarebbe: dai temi green a quelli al femminile, dai diritti al lavoro. Basta soltanto guardarsi attorno. O, chissà, andare al cinema: per quella magica liaison tra realtà e filmografia, è in sala in questi giorni quel C'è ancora domani, esordio alla regia di Paola Cortellesi, che con poche imperdibili immagini finali ricuce quel rapporto interrotto tra la gente e il voto, tra le donne e la solidarietà, tra il mondo dei silenzi e quello della partecipazione.

Un film che non è né violento né comico, nonostante lanci lo sguardo su entrambe le cose: le botte dell'uomo padrone e quel tono allegro della vita romana, scanzonata anche nella tragedia. La leggerezza ironica di Paola Cortellesi ci trasporta in un'Italia del 1946, tra la povertà del dopoguerra e l'arretratezza di un sistema maschilista che nel film è volutamente non sempre datato (le musiche guidano un oscillare di tempi e di decenni). E lo è perché i lividi sulle braccia di una donna, con le cronache che pubblichiamo in queste pagine, non si cancellano mai, così come quello «Stai zitta!» che oggi ricorda Michela Murgia e ieri era il refrain domestico della famiglia patriarcale.

Ebbene, Delia, la protagonista (Cortellesi), madre di famiglia attivissima dal passo veloce e poco aderente al look di una donna del '46 – il che non è forse un errore, ma un modo appunto per dare l’idea di una donna di ieri e di oggi – è vittima di un marito padrone (ottimo nel ruolo Valerio Mastandrea!) e di un suocero ancora più ignorante (Giorgio Colangeli). Ma ha un'amica meravigliosa (Emanuela Fanelli), il sogno di un amore giovanile e una figlia, Marcella, che passa dalla vergogna al sorriso aperto. Dove fuggirà Delia, mettendo il rossetto e indossando la camicia nuova, appena cucita? Verso un'avventura che la farà rinascere, verso una scena corale che – non volendo anticipare troppo del film – ha a che fare con l’adesione sociale, con la piazza, con la Repubblica. E con quel mestiere di cittadino/elettore che, come l'amore, è ancora capace di muovere il mondo.

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