il commento

Immigrazione e futuro, l’Europa è arrivata al giro di boa decisivo

Pino Pisicchio

Il Consiglio informale di Granada è stato così informale da non cambiare nulla

Il Consiglio informale di Granada è stato così informale da non cambiare nulla: neanche un piccolo passo avanti si è fatto sulle ipotesi di regolazione dei flussi migratori, obiettivo fissato alla vigilia. Certo, una certa enfasi sui media italiani si è notata, insistendo sulla dura contrarietà della presidente italiana alla politica tedesca di sostegno alle Ong nel Mediterraneo. Tuttavia, oltre il colloquio, peraltro non risolutivo, con il cancelliere Scholz e una certa retorica del protagonismo italico diffusa con difficoltà, l’unico dato politico è stato quello di una colleganza della Meloni con il premier inglese Sunak, nel segno di una comune visione conservatrice e securitaria.

Che però poco ci serve in Europa, visto che il Regno Unito non c’è e non è nelle rotte dei migranti mediterranei. Per il resto gli oltranzisti di Visegrad, l’ungherese Orban e il polacco Morawiecki, da sempre in asse con con il sovranista Salvini, asse portante del governo, hanno fatto saltare ogni possibile intesa tra i 27, facendo raccontare davanti alle telecamere a Macron e Sánchez che si sarebbe andati avanti a maggioranza nel prossimo consiglio «formale» sulla solidale ricollocazione dei migranti fra i Paesi membri. Cosa vera solo a metà perché i Trattati basano l’approvazione di scelte riguardanti la sicurezza, e i flussi migratori lo sono, sulla condivisione generale: solo così diventerebbero scelte vincolanti per tutti. È un auspicio quello della modifica dei trattati fondativi, ribadito peraltro da Mattarella in un altro importante meeting dei Capi di Stato in Portogallo, ma non è ancora realtà. Vedremo.

L’Europa è sicuramente ad un giro di boa decisivo sul suo futuro di soggetto di diritto internazionale che è un tutt’uno col suo futuro politico. E mette in mostra le sue fragilità che in parte sono tipiche degli ordinamenti democratici, poggiati sul mutevole umore del corpo elettorale: nel giro di settimane alcuni importanti Land tedeschi andranno al voto, ci andrà il Lussemburgo ed anche la Polonia: in questi frangenti la preoccupazione centrale dei governi è quella di non perdere voti. Ma vi sono le fragilità strutturali, legate alla regola della condivisione fra tutti gli stati membri delle decisioni più importanti; alla macchinosità di una procedura decisionale intrappolata dallo schema triangolare Parlamento, Commissione, Consiglio, in cui l’asse portante non è sicuramente l’assemblea degli eletti; all’insufficienza di un approccio con il continente africano, che è in dialogo necessario con l’Europa e non solo per ragioni geografiche, ma che continua ad essere considerato solo un problema, catalogato nell’archivio dei pericoli incombenti.

L’approccio europeo nei confronti del continente africano, in verità, è ambiguo, nel senso dell’oscillazione tra una generosità pelosa, e l’appello alla paura. La prima oscillazione è descritta dai nuovi intellettuali africani come lo scrittore Wainaina che parla del pop umanitario di «We are the world»: intenti nobilissimi dell’Occidente, motivazioni intrise di complessi di colpa per il colonialismo che fu e flussi di danaro raccolti attraverso testimonial del mondo dello spettacolo, che finiscono, però, nelle tasche delle satrapie insediate nella fascia sub-sahariana. L’appello alla paura, invece, accende l’allarme sulla sostituzione etnica che entità nascoste dietro il paravento umanitario, tenderebbero a realizzare attraverso una gestione sapiente degli sbarchi di migranti, in un’Europa ormai sterile ed avviata verso l’irreversibile decrepitezza senile. Approcci sbagliati entrambi, perché piegati sull’immediato e inconsapevoli di quel che avviene veramente in Africa, dove, per esempio, si scopre che la bomba demografica generata da tassi di fertilità pari al 6% di ogni donna nigeriana, cala di un punto e mezzo in cinque anni, in rapporto a due fattori fondamentali: la scolarizzazione delle bambine e all’urbanizzazione, perché le migrazioni interne dalle campagne alle metropoli sono un forte incentivo alla denatalità.

Né l’Europa, che ha ceduto alla Cina il protagonismo delle partnership con i paesi africani, comprende che nei grandi centri urbani comincia a consolidarsi una presenza di giovani intellettuali impegnati in una narrazione dell’Africa che non sia quella raccontata dall’Occidente, una futura classe dirigente che rivendica un approccio diverso ed una via autonomia allo sviluppo. Forse, allora, l’attenzione a progetti che puntino sulla scolarizzazione di massa, magari raggiungendo direttamente le famiglie africane, potrebbe apparire azione più appropriata da parte dell’UE, piuttosto che una postura tutta ripiegata sull’idea securitaria.

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