La riflessione
Professori aggrediti e derisi, un lungo stillicidio con le radici nella storia
La crisi della tenuta pedagogica e formativa nelle società avanzate è insita nelle loro stesse basi di competitività, di classismo e di sfruttamento sociale
Degli spari con una pistola giocattolo in classe sono imparagonabili a quanto accadde nella Columbine High School il 20 aprile 1999, o alle mattanze compiute negli Stati Uniti da adolescenti dotati di armi vere e micidiali. Non eguagliano neppure l’accoltellamento della professoressa di Abbiategrasso da parte di un alunno sedicenne. Però lo stillicidio di aggressioni agli insegnanti che caratterizza la cronaca peninsulare degli ultimi anni deve comunque preoccupare.
Sempre a Bari, nel quartiere Libertà, una madre si scagliò contro l’insegnante rea di averle rimproverato la figlia per la condotta. La picchiatrice iniziò con un ceffone, facendo volare via gli occhiali all’aggredita, poi le si avventò addosso, senza smettere se non con l’arrivo dei carabinieri e chiudendo con una minaccia: «Non la passerai liscia, ti faccio fuori».
Fece eco il pestaggio a Foggia di Pasquale Diana, vicepreside della scuola media «Murialdo», inflittogli dal genitore di un alunno che spingeva i coetanei durante l’uscita. A Santa Maria di Vico, Caserta, la professoressa Franca Di Blasio venne sfregiata in viso da un diciassettenne.
Sono degenerazioni di un lassismo il cui retaggio risale a molto più in là del passato prossimo. Lo dimostra il Franti di de Amicis in Cuore, la pecora nera della classe della quale da ben oltre un secolo si leggono le accorate vicissitudini di un intero anno scolastico. «Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del Re, e Franti rise. Io detesto costui. È malvagio. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino di tela cerata».
Con l’avvento dell’ondata ribellista degli anni ‘60, il discolo di de Amicis beneficiò della promozione a icona del nuovo modello giovanile. Nel Diario minimo, Umberto Eco include un saggio divenuto proverbiale, Elogio di Franti, ironica eppure appassionata difesa del ragazzo maledetto che non si piega all’autorità, portatore di una carica rivoluzionaria. Lo stesso che più in là, rispetto al periodo di uscita del libro, sarebbe deragliato verso gli anni di piombo.
La crisi della tenuta pedagogica e formativa nelle società avanzate è insita nelle loro stesse basi di competitività, di classismo e di sfruttamento sociale. Richard Dadier fa il professore alla North Manual Trades di New York, un istituto tecnico professionale in cui si ambienta Il seme della violenza, romanzo di Evan Hunter. Richard Brooks nel 1955 ne trasse un film con protagonista Glenn Ford. Dadier, un idealista che insegna inglese, si trova dinanzi a un’orda incontrollabile, istigata dall’afroamericano Miller, che nel film era Sidney Poitier. Quei ragazzi sono sicuri in partenza che non realizzeranno il sogno americano, privi del diritto alla felicità sancito dalla Costituzione degli Stati Uniti. Il tempo alla Manual Trades scorre come il più infido percorso di guerra che possa attendere finanche un reduce del Pacifico, come Dadier. Bullismo, mobbing e sordidi appetiti sessuali formano la miscela in cui germoglia il seme della violenza, splendida resa italiana di un titolo originale ugualmente significativo, The Blackboard Jungle, la giungla della lavagna. La lavagna, da dove un docente della Manual Trades non deve mai dare le spalle alla sua classe, per non rischiare la vita.
Realmente profetico fu il cantore dell’assetto metropolitano che assumeva l’Itala del boom economico, Giorgio Scerbanenco. I ragazzi del massacro è terza inchiesta di Duca Lamberti, medico incarcerato e radiato dall’albo per avere aiutato a morire senza soffrire una signora malata di cancro e successivamente investigatore non ufficiale della questura milanese. Una torma di teppisti minorenni dei corsi serali violenta, sevizia e uccide una maestra. Sentenzia Scerbanenco: «Meglio sarebbe stato che la classe fosse stata tenuta da un sergente maggiore della legione straniera, e non da lei, fragile, delicata signorina della piccola borghesia dell’Alta Italia».