Nazione in lutto
Addio, presidente Napolitano: un «gigante» della politica
Primo post-comunista al Viminale, sfiorò poi la realizzazione di riforme istituzionali
Giorgio Napolitano è stato l’uomo politico legato agli esordi della storia repubblicana che ha maggiormente influenzato quel periodo della storia d’Italia comunemente denominata “Seconda Repubblica”. Nella prima parte della sua lunghissima carriera è stato un esponente di primo piano del Partito Comunista. E a primo acchito il fatto che la sua provenienza non gli abbia impedito di assurgere a un ruolo storico proprio quando la Repubblica si è liberata dall’obbligo di fare i conti con il comunismo, potrebbe apparire un paradosso.
La circostanza si spiega, almeno in parte, con la collocazione che Napolitano ha avuto nel suo partito d’origine. Egli è stato con Giorgio Amendola uno dei capi della corrente cosiddetta “migliorista”: filo-sovietica fino al midollo in politica estera (non si rivela nulla nel ricordare che Napolitano fu tra quanti nel 1956 approvarono l’invasione dell’Ungheria), riformista nel metodo e nei contenuti in politica interna. Per i “miglioristi” del Pci, l filo-sovietismo era, insomma, un tributo da pagare alla laicità della politica: finché il mondo restava diviso in due, bisognava giocare quella partita; proprio dalla sua realistica accettazione sarebbe derivato un margine per poter contribuire al progresso sociale del proprio Paese, oltre ogni ubbia rivoluzionaria. Nel Pci, insomma, il grado di riformismo non si misurava col metro della fedeltà all’Urss: Ingrao o “quelli del Manifesto” erano molto meno filo-sovietici di Amendola e Napolitano ma anche molto meno laici e liberali. Questo spiega perché, quando è finita la Guerra Fredda e la cultura politica dei “miglioristi” si è potuta disfare di un vincolo avvertito come “obbligatorio”, essa è entrata in circolo più agevolmente ed ha avuto più facilità a penetrare nelle vene di una nuova stagione politica rispetto, ad esempio, al berlinguerismo .
Non certo casualmente, allora, l’influenza politica di Napolitano ha scavalcato le dinamiche di partito per approdare direttamente nelle istituzioni. Napolitano è stato così, in vigenza di Seconda Repubblica, il primo ministro degli interni post-comunista, poi il primo Presidente della Repubblica e, quindi, il primo Presidente della Repubblica rieletto. Non c’è bisogno di attendere il distacco che a volte la storia pretende, per affermare che egli ha interpretato con rigore il ruolo presidenziale. È stato certamente un Presidente “interventista” ma ha avuto sempre presente che i poteri del Capo dello Stato, così come disegnati dalla Costituzione, sono poteri a geometria variabile. Dipendono dal contesto storico. Sapeva, cioè, che il Presidente è anche un’istituzione di supplenza che entra in funzione laddove si creano dei pericolosi vuoti: i suoi poteri aumentano quando c’è bisogno di ovviare all’assenza di altre istituzioni; poi, nel momento in cui questa necessità cessa, il potere presidenziale si restringe come avesse la forma di una fisarmonica.
Napolitano è stato al Quirinale in anni in cui il sistema politico era particolarmente debole e l’Italia particolarmente esposta. C'è stata addirittura una fase - il passaggio del 2013 -, in cui non esisteva una maggioranza parlamentare, era problematica la possibilità di tornare alle urne e il Pd – il partito che aveva preso più seggi nelle recenti elezioni - era acefalo perché il suo segretario, Pierluigi Bersani, si era dimesso.
Quello fu il momento in cui il potere presidenziale si ampliò maggiormente, e nel quale Napolitano andò più vicino al sogno riformista di varare istituzioni nuove fondate sulla legittimazione reciproca dei protagonisti della cosiddetta Seconda Repubblica. La sua cultura politica, d’altro canto, era quella del periodo della Costituente, dove il compromesso fu possibile addirittura tra parti divise dalla Guerra Fredda.
Fu nel 2013, quando i principali leader politici dei due schieramenti gli andarono a chiedere di accettare la rielezione. Pensò allora di avercela fatta: per lui quella richiesta avvicinava la reciproca legittimazione tra il centrodestra e il centrosinistra. Solo per questo a 88 anni compì uno sforzo personale enorme e accettò d’essere ricandidato. Ma la Costituente, purtroppo, è rimasta un unicum e al tentativo di Napolitano è mancato l’ultimo miglio.
L’Italia ne è uscita più debole e, non certo per caso, quando di lì a poco il populismo sarebbe insorto come fenomeno epocale, il nostro Paese, tra le grandi nazioni europee, è stato quello che ne ha conosciuto la versione più virulenta. Oggi Napolitano ci lascia mentre quella fase della politica globale sembra lentamente avviarsi al declino. Si torna ad avvertire con urgenza il bisogno delle riforme che lui invocò e che la classe politica non volle o non seppe fare. Ma l’obiettivo appare più sfocato, difficile e lontano.