L'analisi

«Nord contro Sud», la questione meridionale morì in fabbrica negli ‘80

Giuseppe Lupo

Quanto abbia inciso questo processo di trasformazione nei rapporti con le comunità del Mezzogiorno è sotto gli occhi di tutti

Manca poco al 2024, in cui ricorrerà l’anniversario della legge Zanardelli, varata dal governo Giolitti dopo il viaggio che Giuseppe Zanardelli compì in Basilicata. Mentre ci accingiamo a celebrarne la ricorrenza e a sottolineare che essa rappresenta il primo, robusto intervento speciale a favore del Mezzogiorno, il libro di Filippo Sbrana (Nord contro Sud. La grande frattura dell’Italia repubblicana, Carocci ed., pp. 248, euro 27,00) viene a ricordarci come sia cambiato il clima cento anni dopo.

Centoventi anni fa la questione meridionale era un problema da cui transitavano le sorti del Paese e tale era rimasto anche dopo, nel passaggio alla Repubblica, tanto da istituire la Cassa del Mezzogiorno, uno strumento che, con un approccio più sistematico, ripercorreva un’esperienza simile.

Il problema che Sbrana affronta nel libro non riguarda l’efficacia dell’una o dell’altra. Riguarda il grado di corrosività nei rapporti che tra Nord e Sud si è andato via via intensificando fino a modificare il sostrato antropologico della nazione, l’innata convinzione secondo cui sentirsi italiani significava immedesimarsi nei problemi di una parte. Sarà anche un lascito ottocentesco questa maniera di osservare le cose, ma quando Sbrana usa il termine «frattura» nel sottotitolo ha in mente un sentimento di ostilità crescente, forse anche una forma latente di razzismo, che ha complicato i rapporti di convivenza e soprattutto ha impresso una direzione ben precisa all’agenda di ministeri e regioni.

Dietro la questione settentrionale – così è stata denominata la deriva del Nord d’Italia, cominciata negli anni Ottanta e mai del tutto conclusa – si nasconde un cambiamento di rotta che rivela addirittura i segnali di una società post-fordista. All’origine ci sarebbe un fatto economico: la crisi iniziata con l’emergenza petrolifera dei primi anni Settanta che ha costretto chi abitava e lavorava in Piemonte, in Lombardia, in Veneto a riscrivere la propria identità manifestando i segni del passaggio verso un’economia immateriale, dalla produzione ai servizi, con il consequenziale modificarsi delle città, com’è accaduto per esempio per Milano, da aggregato industriale a megalopoli padana.

Quanto abbia inciso questo processo di trasformazione nei rapporti con le comunità del Mezzogiorno è sotto gli occhi di tutti. Complice la variazione di mentalità avvenuta negli anni Ottanta (nei quali dominano su scala mondiale due esponenti di un’economia neoliberista come Reagan e la Thatcher), all’indomani di quel decennio il ritardo del Sud era un argomento non più centrale, anzi in taluni casi appariva cancellato dalle agende politiche, considerato una rivendicazione localistica e schiacciato da altre genere di richieste, stavolta ben più pressanti e urgente, delle quali si faceva portavoce la Lega Nord.

Come mai fosse mutato il volto del Paese in così poco tempo e in relazione agli scenari successivi agli anni di piombo è uno dei passaggi più interessanti del libro di Sbrana. Al contrario di quanto solitamente si va affermando assecondando una certa vulgata sul pregiudizio settentrionale nei confronti delle classi dirigenti meridionali – pregiudizio che sarebbe stato poi all’origine delle pulsioni separatiste – Sbrana fa risalire agli ambienti di fabbrica il cambiamento di rotta. Fino agli anni Settanta, i sindacati avevano ancora a cuore l’unità operaia del Nord con il Sud. Qualcosa poi è intervenuto a infrangere questa unità, a favorire nei lavoratori del Nord un tipo di sguardo puntato sulle battaglie dei propri territori. E questo qualcosa fa incrinare le certezze che recava in dote il capitalismo occidentale: l’indubitabile fiducia in un futuro che non poteva riservare altro scenario se non la favola di un inscalfibile Novecento industriale.

Qui sta la chiave di volta dell’analisi di Sbrana e la ragione della «frattura» nel sottotitolo del libro. Ciò che è avvenuto immediatamente dopo (il terremoto dell’Irpinia e l’emergere di un’impostazione clientelare negli equilibri politici delle regioni meridionali, entrambi elementi di forte impatto mediatico) non ha fatto che acuire il malessere del Nord, quel senso di disagio manifestatosi in quell’aria di egoismo spirabile a pieni polmoni sulla pianura al di là del Po, la stessa geografia che fino a pochi anni prima aveva accolto i treni partiti da Lecce, da Palermo, da Napoli, carichi di emigranti.

Che sia stato davvero il sisma del novembre 1980 a modificare gli scenari dei partiti è un’affermazione che andrebbe dimostrata scientificamente. Lo sosteneva anche Generoso Picone in un libro del 2020 dove ricostruiva il terremoto. Di sicuro però quell’evento è stato una cesura lacerante, qualcosa che si è frapposto in maniera traumatica all’interno di un dibattito che, anziché disporsi all’intolleranza, avrebbe dovuto far da stimolo alla classe dirigenti meridionali, non esenti da errori e incapacità. Anche in ciò non possiamo non condividere l’immagine della frattura. E restiamo persuasi di una verità che è sotto gli occhi di tutti: aver estromesso dal destino politico della nazione la riabilitazione economica del Mezzogiorno ha impoverito moralmente il Paese e non l’ha reso più competitivo.

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